GLI IMMAGINARI DELL’IBRIDAZIONE MUTANTE: DAL CORPO TECNOLOGICO AL CORPO VIRTUALE FLUTTUANTE NELLA RETE
by Tatiana Bazzichelli
Tratto dalla tesi in Sociologia delle Comunicazioni di Massa di T. Bazzichelli dal titolo:
Pratiche reali per corpi virtuali. Per una riformulazione del concetto di opera d'arte attraverso la sperimentazione performativa con l'ausilio delle nuove tecnologie
"Credo nell’eleganza dei cimiteri di automobili, nel mistero dei
parcheggi multipiano, nella poesia degli hotel abbandonati.
Credo nelle infatuazioni per stazioni di rifornimento in disuso
(più belle del Taj Mahal), nuvole e uccelli.
Credo nella luce emessa dai videoregistratori nelle vetrine dei
grandi magazzini, nell’intuito messianico delle griglie del
radiatore delle automobili esposte, nell’eleganza delle macchie
d’olio sulle piste catramate dell’aereoporto.
Credo nel morbo conservato per la razza umana dagli
astronauti di Apollo.
Credo nell’impossibilità dell’esistenza, nell’inesistenza
dell’universo, nella noia dell’atomo.
Credo negli odori corporali della principessa Diana.
Credo nei prossimi cinque minuti.
James. G.Ballard
Verso l’immaginario cyber
Trattando gli immaginari di mutazione e di ibridazione che scaturiscono immediatamente pensando all’interazione di un corpo fisico con dei dispositivi tecnologici, si potrebbe retrocedere con il pensiero fino ai racconti del 1800, quando si considerava la possibilità, in seguito all’esaltazione per le nuove scoperte scientifiche del 1700, di creare dei doppi, degli automi. Basta pensare al Frankenstein di Mary Shelley del 1816, portato in vita dagli strumenti alchemici della scienza, ai racconti di Nathaniel Hawtorne, di Herman Melville, di Edgar Allan Poe, di Robert Louis Stevenson, per non parlare dei racconti del 1700 di Hoffmann sugli automi.
Secondo Antonio Caronia, che fa un’analisi approfondita di questo retroscena immaginifico, "la tragicità della figura dell’automa esprime in modo fantastico la stessa critica alla società industriale avanzata nell’Ottocento dagli intellettuali inglesi. Naturalmente non è tanto il destino dell’automa che preoccupa, quanto quello dell’uomo. L’automa, con i suoi dispositivi artificiali e il suo funzionamento assolutamente prevedibile, è il simbolo del nuovo uomo industriale, quello descritto da Dickens in Hard Times, l’uomo che, come dice Thomas Carlyle, ‘è diventato automa nella mente e nel cuore, come lo è nella mano.’ Ecco quindi una nuova contraddizione: l’uomo, diventando macchina, potrebbe assicurarsi l’immortalità, o qualcosa di molto simile a essa, ma solo a prezzo di perdere la sua umanità, solo a prezzo di uccidere in se stesso ciò che lo rende uomo, in ultima analisi la vita. L’immortalità raggiunta nella macchina, insomma, condurrebbe ancora, per un’altra via, di nuovo alla morte."
E’ solo nel secolo successivo (il nostro) che si approderà ad una visione di un nuovo rapporto organico con la tecnologia, portando le riflessioni sull’immortalità su un piano che coinvolga direttamente l’essere uomo. Negli immaginari cyber il corpo umano sembra essere invaso dalla tecnologia, fondersi con essa in un rapporto fatto di una mutazione illimitata e impermanente, un nuovo modo per toccare la soglia del limite senza necessariamente eliminare la componente organica e vitalistica del nostro essere uomini. In realtà queste tematiche sotto certi aspetti non possono neanche essere considerate immaginari perché in alcuni campi sono diventate pratiche reali, da quello artistico a quello della neurochirurgia, dall’ambito della comunicazione a quello della scienza. E’ più preciso dire, allora, che oggi si lavora praticamente sull’immaginario, lo si manipola, lo si trasforma, lo si crea. Molte pratiche che solo quindici anni fa erano considerate fantascientifiche, oggi diventano reali sotto la scia dell’accelerazione temporale tipica della società postindustriale e elettro-informatica.
Si potrebbe aggiungere che oggi in alcune pratiche in cui si ibrida uomo e macchina non si tocca il limite rinunciando alla vita per la morte, come poteva avvenire nei racconti sugli automi sopra accennati, ma la morte entra nella vita e la vita entra nella morte…Anche il confine fra vita e morte in certi casi risulta sfuggente: mi vengono i mente i vari cloni di animali creati recentemente, sono vivi o morti? Affiorano alla mente pesanti domande come: cos’è la vita e cosa la morte? Cosa dà l’una e cosa l’altra? Anche questo dualismo non ha senso come si diceva per artificiale e naturale? L’uomo può veramente creare la vita artificialmente?
Come l’artificiale entra nella vita, allo stesso tempo la vita entra nelle trame degli spazi inanimati: i mondi dell’informatica e della tecnologia si animano di impulsi vitali e si fanno territorio di esperienze concrete, di pratiche reali.
Questi immaginari di cui mi attingo a parlare scatenano grosse riflessioni, soprattutto perché investono i territori della nostra contemporaneità.
L’arte digitale per esempio può essere un modo per riflettere su questi immaginari, poiché facilità il vivere attraverso essi e in essi. Si nutre di questi e li trasforma creativamente.
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Immaginari cyber: il corpo tecnologico nel Cyberpunk
"In te sta già nascendo la nuova carne. Adesso c’è l’ultimo passo, l’ultima trasformazione. Sei pronto Max? Io sono la videoparola che si è fatta carne.
GLORIA E VITA ALLA NUOVA CARNE"
Da Videodrome di David Cronenberg (1982)
Il Cyberpunk come pratica reale attuale
A mio parere gli immaginari di mutazione e di ibridazione uomo-macchina, hanno trovato concreta espressione all’interno del movimento definito Cyberpunk.
Il cyberpunk è un movimento molto complesso: alcuni sostengono che non è mai esistito, altri che è nato negli anni Ottanta ed è morto nei primi anni Novanta, altri che è ancora fertile. Inoltre ha contaminato molti campi: da quello letterario a quello politico, a quello psichedelico, lasciando tracce anche nel mondo della comunicazione teatrale, cinematografica, musicale, fumettistica."
Una cosa è certa: nelle pieghe neuroniche svelate da questo movimento l’uomo si avvicina strettamente alla tecnologia: questa si insinua nel suo corpo, ne orienta le azioni, ne attualizza gli scopi. Il cyberpunk è una metafora della condizione attuale, è lo specchio di una società mutante e rizomatica e che contamina il nostro corpo e la nostra cultura.
"Il termine Cyberpunk non è stata un’invenzione del particolare gruppo di scrittori che con tale termine venivano definiti.
Cyberpunk, come ‘Hippy’, era in origine un termine essenzialmente giornalistico. Un tentativo di descrivere certi fenomeni di letteratura e paraletteratura associati con gli anni Ottanta. Come qualunque neologismo giornalistico, o il miglior slogan creato da un pubblicitario, all’inizio era vuoto in attesa di ricevere significato. Oggi può significare molte cose."
Bruce Sterling nella Prefazione a "Mirrorshades" l’antologia di testi cyberpunk da lui curata, sostiene: "La fantascienza, stando almeno al suo dogma ufficiale, ha sempre ragionato intorno all’impatto della tecnologia. Ma i tempi sono cambiati da quelli propri della confortevole epoca di Hugo Gernsback, quando la scienza era conservata al sicuro, e confinata in una torre d’avorio. […] Per i cyberpunks, al contrario, la tecnologia è viscerale. Non è il genio della bottiglia della Grande Scienza; è persuasiva, assolutamente intrinseca intima. Non fuori di noi, ma prossima a noi. Sotto la nostra pelle, spesso nelle nostre menti.
La tecnologia stessa è cambiata. Per noi non è la gigantesca meraviglia, sbuffante di vapore, del passato: l’arcaica madre Hoover, l’Empire State Building, gli stabilimenti a energia nucleare. La tecnologia si conficca nella pelle, risponde al tocco: il personal computer, il Walkman Sony, il telefono portatile, le lenti a contatto di tipo morbido.
Certi temi centrali emergono di continuo nel cyberpunk. Il tema dell’invasione corporea: membra prostetiche, circuiti implantati, chirurgia cosmetica, alterazione genetica. E l’ancora più potente tema dell’invasione mentale: l’interfaccia cervello-computer, l’intelligenza artificiale, la neurochimica. Tutte tecniche queste che ridefiniscono radicalmente la natura umana, la natura di sé."
A mio parere l’aspetto da evidenziare a carattere introduttivo è il fatto che il Cyberpunk, più che una corrente, va considerato un movimento, originato magari inconsapevolmente dagli scrittori di fantascienza radicale che ne hanno strutturato le basi concettuali. Sostengo questo perché il Cyberpunk, nato nei libri di Bruce Sterling, John Shirley e William Gibson degli anni Ottanta, o se vogliamo essere più precisi, ispirato dai libri degli anni Sessanta-Settanta di Philip Kendred Dick, William S.Burroughs, J.G.Ballard e degli altri membri della New Wave, dalla scrittura mediale di Thomas Pynchon, dalle derive mentali di Timothy Leary, ha dato origine a (ed è stato originato da) determinate pratiche di carattere oppositivo, gravitanti nel mondo politico, degli hacker, all’interno delle performance artistiche. Il cyberpunk è nato sotto la scia di pratiche oppositive reali e, dopo averne agitato i fantasmi dell’immaginario, li ha di nuovo riversati nella vita quotidiana. Forse come movimento letterario il Cyberpunk sarà pure da considerarsi concluso (come sostiene Bruce Sterling in un articolo del 1991 apparso sulla rivista inglese Interzone), anche se non vanno dimenticati i testi post-1991 di chiara ispirazione Cyberpunk di Neal Stephenson (Snow Crash) e di Pat Cadigan (Myndplayers) per non parlare di quelli di Richard Calder e di Alexander Besher, però come modello mentale e pratica reale non è affatto terminato. In realtà si può dire che nel panorama tecnologico attuale si sono create le condizioni per rendere concrete e reali alcune istanze (oppositive e non) preannunciate dalla corrente letteraria e che traggono ispirazione da altre pratiche oppositive del passato.
Nell’introduzione al Cyberpunk come fenomeno letterario tratteggiata nel Sito Internet del Gruppo di Decoder (ripresa dal testo Cyberpunk a cura di Raf Valvola Scelsi), appare chiaro proprio questo carattere di pratica reale oppositiva del Cyberpunk. Questo avviene analizzando il termine Cyberpunk come sincretismo di Cyber e Punk e partendo dalle riflessioni di Bruce Sterling: "Sterling afferma che la letteratura cyber ha un debito nei confronti dell’esperienza dei punk, e segnala tre piani differenti della questione. In primo luogo un’istanza di depurazione del mainstream (la fantascienza classica) rispetto agli orpelli costruiti sopra di esso. ‘Il cyberpunk è un liberare la fantascienza stessa dall’influenza principale, così come il punk svestì il rock and roll dalla sinfonica eleganza del progressive rock degli anni Settanta. Come la musica punk, il cyberpunk è in un certo senso un ritorno alle radici.’ Un secondo piano di analisi sul rapporto tra cyber e punk viene rintracciato nell’enucleazione della questione tra teoria e prassi: ‘Nella cultura pop, per prima viene la pratica e la teoria ne segue zoppicando le tracce’. Chiunque abbia frequentato la scena punk sa bene che una delle tensioni principali del movimento si condensò nel praticare e quindi nel teorizzare il diritto comunque a esprimersi suonando, indipendentemente dalle capacità teorico musicali possedute. Il caso dei Sex Pistols in questo senso è esemplare.
Sono la pratica del vivere collettivo e dell’autogestire la propria vita e i luoghi di socializzazione a definire gli impegni esterni del movimento, non viceversa.
D’altronde lo stesso Sterling si riferisce a questo rapporto tra prassi e teoria, quando indica nella cultura di strada, e nella cultura hip-hop in particolare, il luogo di genesi dell’unione operativa tra tecnologia e pratiche controculturali di resistenza quotidiana. Il terzo piano del debito cyberpunk nei confronti dell’ambito underground viene infine rintracciato proprio allorquando egli evidenzia che: ‘Il cyberpunk proviene da quel regno dove il pirata del computer e il rocker si sovrappongono’. ‘Il cyberpunk ne è la letteraria incarnazione’, difatti nel frattempo si è costituita ‘una Non Santa Alleanza del mondo tecnologco e del mondo del dissenso organizzato’."
Pratiche di autogestione oppositiva si incontrano con gli immaginari postumani e cyber andando ad increspare ulteriormente le acque di quel flusso immaginativo iniziato negli anni Sessanta con le opere degli scrittori citati sopra e che oggi sta confluendo (ma non arrestandosi) in molte pratiche artistiche performative e di democrazia informatica.
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Il corpo tecnologico negli interstizi delle opere degli ispiratori del Cyberpunk
Gli ispiratori del Cyberpunk come corrente letteraria sono parecchi, così nella mia analisi cercherò di considerarne solo alcuni (quelli agenti soprattutto negli anni Sessanta-Settanta), secondo me legati da un filo di trasparenza opaca, un riflesso vitreo che ha a che fare con lo sguardo e le sue strategie di confine. Le mie riflessioni precedenti, prendendo spunto dalle teorizzazioni di Sherry Turkle ponevano in primo piano la componente opaca delle tecnologie della simulazione e cioè quel costituirsi degli strumenti informatici in territori liminari di manipolazione di superficie. In queste zone di interfaccia, l’individuo si trova a vivere esperienze di confine ed ibridanti, in cui avviene una fusione fra spazio interno e spazio esterno, a partire proprio dalla sperimentazione all’interno dell’opacità tecnologica.
E’ la stessa opacità tecnologica che si trova nei Mirrorshades di Bruce Sterling (gli occhiali a specchio, nome che lo scrittore dà alla sua antologia), che vorrei considerare come icona immaginaria di partenza, centro delle reti neurali che danno forma agli immaginari passati (gli anni Sessanta-Settanta) e futuri (l’epoca attuale) del cyberpunk degli anni Ottanta.
Proprio nella Prefazione a "Mirrorshades" Bruce Sterling scrive: "Gli occhiali da sole a specchio sono stati un totem del movimento fin dai primi giorni del 1982. Le ragioni di ciò non sono difficili da capire. Attraverso il nascondere gli occhi, le lenti a specchio ostacolano le forze della normalità a comprendere che uno è impazzito e possibilmente pericoloso. Essi sono il simbolo del visionario che fissa lo sguardo al sole, il biker, il rocker, il poliziotto, e fuorilegge simili. Le lenti a specchio - preferibilmente in cromo e nero opaco, i colori totem del movimento - apparvero in ogni novella, quasi fossero una specie di distintivo letterario."
Gli occhiali a specchio possono essere una metafora dell’opacità dell’artificiale, l’interfaccia tecnologica sul viso dell’individuo, la zona di confine fra interno ed esterno se si considera lo sguardo come il portavoce delle pulsioni interiori. L’interiorità dell’individuo è mediata dalla tecnologia che si posa sul suo corpo nel cyberpunk degli anni ’80, mentre negli anni Sessanta esplode nel mondo esterno, come nei racconti di Ballard. Nelle trame visionarie di Ballard prende corpo una metafora fenomenologica: lo spazio interno. Le sensazioni, i terrori, le angosce, gli stati d’animo interiori scivolano e straripano sull’esterno, come un flusso neuronico che si materializza nello spazio materiale. La scrittura di Ballard è stata paragonata ad un bisturi, poiché seziona le nostre menti estrapolandone le creature fantasmatiche che vi riposano o vi si agitano. La realtà che noi osserviamo sembra diventare lo scenario per le creature oniriche che fluttuano nella nostra psiche, la quale esplode nello spazio materiale, mentre una realtà esterna spaesante e surreale implode nel nostro mondo interiore.
Raf Valvola in "Mela al cianuro" nell’Antologia Cyberpunk, per descrivere cos’è lo spazio interno ballardiano riporta un frammento di Deserto d’Acqua, scritto da Ballard nei primi anni ’60, "uno dei suoi romanzi più forti ed evocativi, in cui Kernes ‘Ricordò le iguane strillanti sui gradini del museo. Proprio come la distinzione tra significato latente e quello manifesto del sogno aveva perso ogni valore, così non aveva senso qualsiasi distinzione tra il reale e il super-reale nel mondo esterno. Fantasmi scivolavano impercettibilmente dall’incubo alla realtà e viceversa; il panorama terrestre e quello psichico erano ormai indistinguibili, come lo erano stati a Hiroshima e ad Auschwitz, sul golgota e a Gomorra’. Così Bodkin gli rispose: ‘I residui del tuo controllo cosciente sono gli unici speroni che tengono in piedi la diga’. ‘I meccanismi di liberazione innati, impressi nel tuo citoplasma milioni di anni fa, sono stati risvegliati, il sole in espansione e la temperatura in aumento ti stanno spingendo indietro, lungo i vari livelli spinali, nei mari sepolti, sommersi sotto gli strati infimi del tuo inconscio, nella zona interamente nuova della psiche neuronica. Si tratta di trasposizione lombare, di memoria biopsichica totale. Noi ricordiamo veramente quelle paludi e quelle lagune’."
La tecnologia è disciolta nell’ambiente e si insinua nelle porosità della psiche umana che a sua volta esce dai globi oculari attraverso le strategie dello sguardo, mediante il quale si rivela all’individuo l’irrealtà dello spazio esterno, che diventa deriva psichica.
Gli ambienti esterni, spesso soggetti a catastrofi estranianti, diventano l’architettura simbolica dei nostri travagli interiori e le città parlano attraverso un linguaggio spaziale che conserva le tracce dei nostri percorsi emozionali: "C’è un linguaggio della forma urbana: è come se i quartieri, i palazzi, le vie, le piazze, i giardini, fossero organizzati in un insieme di segni i cui significati sono identificabili con (o almeno riducibili a) certi nostri stati psichici, certe nostre situazioni mentali ed emotive, variabili in una certa misura da individuo a individuo, ma con un nucleo in comune, intersoggettivo (l’immaginario collettivo). Il connettivo di questo linguaggio, l’insieme dei suoi simboli logici, potrebbe essere identificato con le tecnologie, soprattutto quelle informative e comunicative, che oggi tra l’altro definiscono la città più ancora dell’elemento spaziale in quanto tale. Si potrebbe dire, con altre parole, che ciò che rende intellegibile lo spazio urbano è proprio il rapporto tra tecnologia e forma […]."
La tecnologia nei testi di Ballard si fa ponte fra paesaggi interiori e spazio esterno e diviene un simbolo neuronico, un veicolo dei desideri e delle pulsioni interiori, anche ossessive (come nel suo romanzo Crash del 1973-74). "Il cyborg di Ballard non ha bisogno di impiantare fisicamente la tecnologia all’interno del proprio corpo. Quest’ultima, diffusa nel suo ambiente, agisce in lui direttamente a livello mentale, si inscrive nel suo sistema nervoso, con uno scambio tra l’interno e l’esterno che riattiva un processo simbolico a livello di tutto il corpo."
Un altro libro che ricorda questo confluire di spazio interno in esterno e viceversa trasportando il lettore in un universo onirico da visione acida è Il Pasto Nudo di William Burroughs, anche quest’ultimo da considerare come uno dei padri del cyberpunk. Questa volta la scrittura di Burroughs può essere considerata non solo un bisturi che scava, ma un bisturi che taglia gli immaginari della nuova carne per ricomporli casualmente, attraverso la tecnica del cut-up, in un’opera letteraria che costituisce uno dei romanzi (si può veramente definirlo "romanzo"?) di culto della Beat Generation. Come i colori di una Dream Machine il testo di Bourroughs si compone di tagli narrativi che interagendo fra loro generano atmosfere visionarie, conferendo senso all’opera mediante le pulsioni minimali che il lettore riesce a ricevere ed elaborare. Infatti, la tecnica del cut-up di Bourroughs pone il lettore, forse per la prima volta fino ad allora, in una condizione di non-passività (come per esempio avverrà più tardi con un libro come TAZ di Hakim Bey del 1991): di fronte ad un apparente delirio psichedelico, il lettore è stimolato a creare le personali trame di senso, costruendo un mosaico mentale partendo dai tasselli disposti casualmente da Burroughs. Il libro ricorda la tecnica del montaggio, ma non è un montaggio imposto, bensì lascia la possibilità di autogestire i significati.
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Ne Il Pasto Nudo Burroughs opera una sperimentazione linguistica che è ben rappresentata da questa poesia di Allen Ginsberg (altro esponente della Beat Generation), da cui quest’ultimo ricavò il titolo per la raccolta Sandwiches di realtà:
"Il metodo deve essere purissima carne
e non condimento simbolico,
visioni reali & prigioni reali
come si vedono di quando in quando.
Prigioni e visioni presentate
con rare descrizioni
corrispondenze esatte a quelle di Alcatraz e Rosa.
Un pranzo nudo è naturale per noi,
Noi mangiamo sandwiches di realtà
Ma le allegorie sono tali lattughe.
Non nascondete la follia."
In effetti la scrittura di Burroughs è purissima carne, visionaria ma più realistica e materiale di tanti "romanzi-verità"; o meglio è una nuova carne, per le novità che ha portato nel panorama comunicativo e letterario, per essere un virus cognitivo contaminante. Parlando di nuova carne vengono subito alla mente i film di David Cronenberg, come Videodrome (1982) e, guarda caso, Il Pasto Nudo (1991), la versione cinematografica del libro di Burroughs, testo che viene a sua volta contaminato nella realizzazione in pellicola dal Cyberpunk degli anni ’80, che da tempo ha preso vita (anzi, come dice Sterling, è morto proprio in quell’anno dopo dieci anni di esistenza). Anche nei film di Cronenberg la macchina da presa non si può più considerare un "narratore onnisciente" al pari della figura di Burroughs come scrittore: in questi film ci sono continui cambiamenti di punti di vista, miscelazioni fra visioni e realtà, si è trasportati in universi onirici ed allucinati in cui artificiale e reale si fondono nelle trame dell’inquietudine. Cronenberg (e secondo me anche Burroughs) mostra come "i nuovi media esigano una ‘nuova carne’, un nuovo corpo, un nuovo tipo di spettatore: che può nascere - e forse sta già nascendo - solo dalla soppressione del vecchio spettatore, quello svezzato e cresciuto nell’illusione che le immagini fossero sempre e comunque una ‘riproduzione’ della realtà".
Nelle trame visionarie dei film di Cronenberg questo rapporto unilaterale realtà-immagine cinematografica salta e le immagini si fanno costruzione di realtà, una realtà che oscilla fra l’artificiale e il reale. Le immagini che il regista propone non sono referenti di un mondo dai confini rassicuranti e definiti: evocano mondi, costruiscono immaginari (come del resto fa la televisione che, secondo le parole di Giacomo Verde "Non esiste, sono solo figurine").
E la metafora della purissima carne di Allen Ginsberg evocata parlando dei testi di Burroughs (e non solo), nel film Il Pasto Nudo di Cronenberg viene concretizzata: le parole scritte da Burroughs si fanno realmente CARNE, creano una realtà corporea e materiale attraverso la mutazione delle macchine da scrivere in creature organiche e sanguinolente.
Questo elemento non compare nel libro di Burroughs, ma in realtà è un ottimo modo per parafrasarlo. La macchina da scrivere, che si fa protesi del nostro corpo per accettare i nostri percorsi mentali, diviene corpo essa stessa: diviene un cyborg mutante, trasformata da un linguaggio che è un pasto nudo. In questo senso le atmosfere nel film si fanno molto vicine agli immaginari Cyberpunk che vedono i personaggi vivere in un universo visionario, underground, popolato da creature mostruose, da individui solitari ai margini e alla deriva della società, in cui imperversano le droghe, le armi, le macchine e le creature artificiali, i mutanti organico-elettronici.
Questo film di Cronenberg può costituire un richiamo al filone del Cyberpunk Psichedelico, che ha fra i suoi massimi fautori Timothy Leary e può essere un ulteriore esempio dell’opacità dello sguardo che in questo caso si dirama nelle allucinazioni visionarie in cui uomo e macchina, organico e sintetico si incontrano.
Infatti il tema dell’incontro fra l’organico (il corpo umano) e il sintetico (le droghe come l’LSD) è portante per il pensiero di Leary, che vede in questa miscelazione psicofisica un mezzo per ampliare la percezione ed espandere la coscienza, conferendo un aspetto esoterico-mistico alle esperienze con gli psichedelici. Egli compì un complesso percorso di studi a partire dagli anni Cinquanta (ma soprattutto negli anni Sessanta) sulla somministrazione e le reazioni all’LSD, componendo le trame di una nuova scienza Neurologica al fine del "controllo del sistema nervoso da parte di ognuno". Il suo punto di vista viene definito "una sorta di misticismo/positivista neoplatonico", una neofilosofia visionaria ma pragmatica, con lo scopo di mostrare come autodeterminare l’espansione della coscienza e come comprendere i meccanismi del proprio sistema nervoso. Leary scrive: "…insegnare all’individuo l’auto-somministrazione di droghe psiocoattive in modo da liberarne la psiche senza che debba dipendere da medici o da istituzioni….Le droghe psichedeliche espongono la persona all’esperienza grezza del funzionamento caotico del cervello, con la sospensione provvisoria delle protezioni normalmente messe in atto dalla mente. Stiamo parlando della tremenda accelerazione delle immagini, delle percezioni analogiche che si sbriciolano in scie di lampi off/on dei neuroni, la moltiplicazione di disordinati programmi mentali che scivolano dentro e fuori dalla consapevolezza come floppy disk."
Con l’affermarsi del computer il misticismo di Timothy Leary approda alla concezione di un’espansione percettiva all’interno dei dati informatici e dei bits, teorizzando un’ibridazione interzonica computer-cervello all’interno di un più democratico spazio virtuale, luogo di pratiche autopilotate (questo ricorda le pratiche nello spazio virtuale di Case, nel libro Neuromante -1984- di William Gibson). Nel libro Caos e Cibercultura del 1994, egli scrive: "Si scopre così che il cervello altro non è che una rete galattica composta da cento miliardi di neuroni, ciascuno dei quali è un sistema informatico complesso quanto un computer molto grande, o maiframe. Ciascuno dei neuroni è in collegamento con altri diecimila suoi simili; ognuno di noi è dotato di un universo di neurocomplessità che è imperscrutabile per le nostre menti alfanumeriche.
Questa potenza cerebrale è allo stesso tempo il segno più umiliante della nostra ignoranza attuale ma, una volta che avremo cominciato a imparare a far funzionare il nostro cervello, anche la prospettiva più entusiasmante della nostra divinità"
Per Timothy Leary l’evoluzione progressiva della nostra specie ci sta trasformando in nuovi anfibi, creature assuefatte al bombardamento degli stimoli sensoriali e che ne desiderano sempre più, e che si doteranno quindi di dispositivi digitali e di ciber-indumenti per abitare i nuovi ambienti virtuali e per manipolare liberamente tutto ciò che si presenta nell’iconosfera. Leary scrive: "Questo appetito per i dati digitali, sempre più numerosi e sempre più veloci, si può riconoscere come un bisogno proprio della specie. Il cervello ha bisogno di elettroni e di sostanze chimiche psicoattive proprio come il corpo ha bisogno di ossigeno. Presto i medici cerebro-psibernetici elencheranno il nostro fabbisogno giornaliero di varie categorie di informazioni digitali, esattamente come oggi i dietologi elencano il nostro fabbisogno vitaminico."
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Da questi scenari e queste pratiche radicali e autogestite possibili dalla fusione di organico e inorganico, cervello e macchina, si comprende il motivo per cui Timothy Leary può essere considerato un guru per il Cyberpunk Letterario, ma anche un ispiratore di quello Politico (lo vedremo poi). Anche negli scritti di Timothy Leary compare quella fusione sincretica fra spazio interno e spazio esterno: il mondo della tecnologia diventa una nuova realtà in cui espandere e autodeterminare la propria azione. Nelle sue parole gli immaginari fantasmatici e visionari si fondono con la percezione del reale e lasciano entrare lo sguardo nelle derive del Caos. Il tutto viene presentato come strategia di liberazione, con un’estrema fiducia nel progresso e nell’evoluzione umana.
C’è invece un altro ispiratore del Cyberpunk che ci immerge in atmosfere ben più gotiche e che tratteggia gli scenari futuristici con un appassionato cinismo senza via di fuga: Philip K. Dick, che scrive racconti e romanzi dal 1952 fino ai primi anni Ottanta.
In Dick anche ritroviamo il tema dell’inganno dei sensi dettato dalla commistione fra una una tecnologia opaca e penetrante ed una realtà grigia ed evanescente, che nella sua corsa verso l’artificializzazione trascina con sé in un vortice intrappolante la mente ed i desideri degli individui. Gli individui si trovano a vivere in mondi mutati da una tecnologia onnicomprensiva ed invadente, che disgrega i tradizionali punti di vista, le sfaccettature assolutizzanti della realtà. Nella solitudine in cui vivono i personaggi Dickiani non si scorge un fascio di luce chiarificatore e anche ciò che sembra essere una soluzione e un significato, non tarda a rivelare la sua inconsistenza e la sua finzione. In un mondo in cui l’artificialità dei media e delle droghe ha pervaso tutto, i personaggi sembrano ricercare un anelito di libertà, nel misticismo o nella lotta contro un potere senza origine manifesta (come fanno gli androidi in Cacciatore di Androidi, del 1968, che protestano per la loro schiavitù coatta). Però, come in Cacciatore di Androidi (o Do Androids Dream of Electric Sheep?), anche la libertà si scioglie nelle trame dell’artificiale, come sembra sciogliersi il replicante Roy (Rutger Hauer) sotto la pioggia radioattiva verso la fine del film Blade Runner di Ridley Scott (1982). Anche il film Blade Runner in qualche modo tradisce il libro di Dick, basta pensare all’importanza conferita agli animali elettrici nel libro, come pesante simbolo di contaminazione fra reale e artificiale e come specchio del dramma interiore di un’umanità che sta perdendo progressivamente ogni organicità ed umanità, mentre tutto questo appare solo marginalmente nel film. Oppure si può pensare alla figura mistica di Mercer, assente nel film, che nel libro costituisce un’entità spirituale raggiungibile collettivamente, introiettando uno spazio virtuale attraverso una macchina. Mercer è il simbolo di una libertà collettiva cercata con la sofferenza che, quando sembra avvicinarsi, fa precipitare l’individuo nel regno della morte e della finzione. Però il film trasmette in modo esemplare quella sensazione claustrofobica di impossibilità di fuga dalla finzione e dall’artificializzazione della realtà attraverso le atmosfere ricreate con una pioggia incessante, l’oscurità degli ambienti rischiarati solo dalle luci al neon, le voci automatiche della metropoli, la violenza degli inseguimenti senza via di salvezza, gli aspetti surreali dei personaggi. Anche qui le strategie dello sguardo assumono molta importanza e si va dagli sguardi penetranti e gelidi di Roy (Rutger Hauer), a quelli acquosi di Rachael (Sean Young), a quelli ironici di Pris (Daryl Hannah) a quello opaco del gufo tecnologico.
Antonio Caronia descrive questo aspetto molto incisivamente nel suo testo Il corpo virtuale:
"In Blade Runner il tema dell’artificiale (e forse, in fondo, anche un recupero delle tematiche di Dick) è affidato per intero alla luce, all’occhio e allo sguardo. In un certo senso, è vero, questo si potrebbe dire per ogni film. Ma quello che colpisce, qui, è l’esplicitazione diretta (non so quanto coscientemente da parte del regista, ma questo, lo sappiamo, conta poco) della sostanza del cinema, una corrispondenza precisa e stringente fra i temi visivi e quelli concettuali. Il film vive tutto su un’opposizione ripetuta, insistita, radicale, fra l’opaco e il trasparente. La meravigliosa architettura scottiana della Los Angeles del 2019, eclettica e massiccia, è fatta per catturare e assorbire la luce, per creare un’ombra nella quale uomini e replicanti possano vivere e nascondersi. La luce fatica a farsi strada, filtra in lame sottilissime attraverso le finestre, viene distribuita dalle pale rotanti dei ventilatori sul soffitto, sciabola dall’alto dai fari fissati sotto le auto volanti della polizia. […] Replicanti, poliziotti, abitanti, vivono in una continua penombra come nella casa di Isidore con i suoi giocattoli meccanici. L’opposizione luce/ombra non ha un significato univoco a livello della storia, ma solo a livello della struttura concettuale dell’intero film. Quando operano i replicanti, il buio è l’elemento nel quale possono nascondersi e vivere, la luce lo strumento del controllo del potere […]. Nei dialoghi fra Rachel e Deckard, invece […], l’ombra è la condizione oscura dell’eroe/antieroe, la luce il trionfo dell’innocenza dolorosa della donna. Tutta la scena della caccia alla replicante Zora è un trionfo di materiali trasparenti, dai vestiti in plastica della donna alla serie di vetrine che lei infrange nella sua caduta, in un bellissimo ralenti. Anche la cortina di pioggia che continua a cadere per tutto il film è insieme trasparente e opaca. E se non fossimo convinti che il tema fondamentale del film è lo sforzo dello sguardo di rompere l’opacità, di aprirsi una via al di là dei muri e dei corpi, dietro i muri e dentro i corpi, per renderli trasparenti e penetrare la dimensione segreta che può dirci che cosa è umano e cosa non lo è, se non fossimo convinti di questo, Scott ha disseminato il suo film di immagini dell’occhio. L’occhio esaminato nel Voigt Kampffcampeggia in primo piano, riempiendo tutto lo schermo, all’inizio del film, spezzando la carrellata dall’alto sulla Los Angeles disseminata di fuochi. Roy e Leon alla ricerca di Tyrell uccidono il tecnico tibetano che fabbrica gli occhi dei replicanti. La luce batte sull’occhio del gufo, che diviene opaco e svela così il suo carattere di macchina."
Questa importanza e nello stesso tempo instabilità riservata al senso della vista, in realtà potrebbe essere una metafora della società attuale, che, da società delle merci risplendenti fatte apposta per irretire gli sguardi dei consumatori, si sta ibridando in una società dei corpi in cui la vista perde il suo predominio e assumono potere gli aspetti tattili e sensuali delle cose. Perniola di fronte al farsi corpo della nostra cultura scrive: "Sembra che le cose e i sensi non si combattano più tra loro, ma abbiano stretto un’alleanza grazie alla quale l’astrazione più distaccata e l’eccitazione più sfrenata sono quasi inseparabili e spesso indistinguibili. Così dal connubio tra l’estremismo speculativo della filosofia e l’invincibile potenza della sessualità nasce qualcosa di straordinario in cui la nostra età si riconosce: sulla scorta di Walter Benjamin possiamo chiamarlo il sex appeal dell’inorganico."
La comunicazione si fa nuova carne, la cultura si fa corpo, il corpo si fa cosa che sente: diventa un vestito da indossare, una superficie su cui imprimere segnali, una protesi artificiale collegata al nostro cervello, una tuta cyborg sempre disponibile, un’interfaccia grafica manipolabile, un’installazione interattiva che straripa e ci pervade con il suo con-tatto, un’opera d’arte su cui sperimentare. L’eccitazione sta nella esuberante e sicura disponibilità dell’artificio; per Perniola si passa dall’epoca della rappresentazione a quella della disponibilità: "le cose virtuali sono costantemente a nostra disposizione. Tutto è offerto e questa offerta costituisce appunto la sua virtualità. Una sessualità virtuale perciò non è precaria ed effimera come quella naturale, ma sempre disponibile nella sua vertiginosa artificialità"
Il corpo artificiale quindi come sfida e desiderio, come territorio su cui riflettere sui confini della nostra naturalità e come zona liminare in cui ridefinire le modalità di autopercezione dell’uomo e di percezione dell’ambiente esterno. Oppure come mezzo per perpetuare pratiche radicali, in cui gli immaginari fantascientifici di ibridazione uomo-macchina si fanno realtà.
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Pratiche radicali: dal corpo tecnologico al corpo virtuale nelle performance cyber
Premessa
Già in precedenza si è sottolineato che il Cyberpunk sia da considerarsi più un’attitudine, uno stile di vita, che una corrente teorico-letteraria, anche se, in realtà, il termine è stato più che altro assimilato ad una certa categoria di romanzi di SF (science-fiction). Il discorso vale ancor di più oggi, poiché l’epoca attuale sembra portare alla pratica quello che già della fantascienza gli scrittori come Gibson e Sterling avevano portato con i piedi per Terra.
Lo stesso Gibson, in una conferenza in Austria, sostiene che la sua fantascienza, come tant’altra cosiddetta cyberpunk, "sembra meno interessata ad anticipare nuove tecnologie che a considerare i vari usi che lo stupendo e confusionario animale uomo può trovare per queste." La tecnologia nel Cyberpunk degli anni ’80 si fa corpo ed entra fisicamente nelle vita degli individui, come una nuova pelle. "Nell’universo Cyber la tecnologia cessa di essere quindi un supporto all’avvenimento narrato. Se in Ballard è mero espediente e in Dick spesso causa scatenante quanto molto spesso incomprensibile, qui diventa un habitat, nuova natura. Se i personaggi si muovono tra flussi di dati, in città fatiscenti o in satelliti è perché non potrebbero esistere in altri luoghi. Gli spazi non tecnologici sono ininfluenti. La tecnologia è il motore dell’evoluzione. Una tecnologia che pervade l’essere umano che introietta e ne viene introiettato in un rapporto di mutuo scambio."
Se questi sono gli immaginari che evocano i romanzi Cyberpunk, nella vita quotidiana si fanno reali attraverso le performance di determinati artisti, che inscenano spettacoli post-futuristici in cui le macchine diventano le attrici principali e che sconvolgono le categorie tradizionali degli spazi scenici teatrali. Fra questi si possono ricordare i Mutoid Waste Company, La Fura Dels Baus, il gruppo SRL (Survival Research Laboratories), il performer Stelarc.
Queste pratiche radicali si inscrivono in un filone in cui arte e fantascienza si contaminano, commentato così da Pier Luigi Capucci: "E’ con l’arte tecnologica che le connessioni [fra arte e fantascienza] appaiono più rilevanti, in particolare quando essa si interroga sulle problematiche contemporanee inerenti all’impiego delle tecnologie e al loro impatto sociale, quando utilizza questi strumenti, questi media nati per altri scopi, in maniera originale: in questo ambito vi sono esperienze che alla fantascienza si rifanno in modo evidente, che anzi vogliono rappresentarla. Non è un caso che queste sperimentazioni siano particolarmente interessate al settore delle telecomunicazioni, alla sua vocazione sociale, di massa, ai suoi aspetti totalizzanti e condizionanti, e che il loro operare consista sovente in una critica radicale, espressa tuttavia non con un rifiuto delle tecnologie, dei media in se stessi, della nuova natura che sono in grado di generare, ma tramite un’appropriazione e un impiego radicalmente diversi di essi."
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I Mutoid Waste Company (Mutoid W.C.)
Nei Mutoid i rottami tecnologici della società post-industriale, gli scarti meccanici del vortice tecnologico avviluppante da cui tutti siamo trascinati, divemtano sculture gigantesche, appartamenti mobili, materiale scenico, fonte di sostentamento. I Mutoid sono un gruppo di 8-20 persone derivanti dalla scena punk londinese che, partiti dal teatro di strada, sono arrivati a riunirsi in un gruppo "mutante" e nomade, mettendo in scena performance, esposizioni e parate sui loro macabri bus accompagnati dalle loro scenografie meccaniche e dai suoni industriali degli strumenti a percussione autorealizzati. I Mutoid vivono dentro caravan fra materiale di scarto tecnologico e pezzi meccanici, parcheggiandosi nei non-luoghi della società post-industriale, come vecchi supermarket, cantieri in rovina, parcheggi in disuso, fabbriche, operando continue mutazioni nella loro arte e nell’ambiente che li ospita. "Un bus può essere un appartamento o diventare un atelier e i rottami possono essere fonte di sostentamento e ci si può guadagnare vendendoli, oppure essere dei pezzi di ricambio indispensabili o, ancora, sono buoni per fare delle sculture.
Un bus può essere dipinto o decorato, in modo che esso stesso diventi un pezzo d’arte e se un bus non può essere lavorato, se ne possono ricavare dei pezzi che possono essere utilizzati per altre macchine."
Qui la cultura del bricolage trova la sua applicazione concreta e nello stile di vita dei Mutoid W.C. si rispecchiano le caratteristiche dell’epoca contemporanea in cui si è passati dalle certezze oggettivanti al fluido divenire delle mutazioni tecnologico-corporee.
Joe Rush detto Reverend Mutant Preacher King, il "predicatore" del gruppo, sostiene: "Noi viviamo per questa idea della mutazione dei nostri veicoli e della nostra arte. L’idea è di rappresentare sempre qualcosa di originale e di lasciarsi trasformare. Niente è finito per sempre e la natura delle cose commerciabili è solo pattume: se tu non riesci a lavorare ed a intervenire sopra queste cose avrai solo pattume. Di questi tempi ognuno ha la sua mutazione in se stesso ed essa corrisponderà ai suoi bisogni e al suo lavoro. Gli impiegati vedranno spuntare sulle loro teste matite gigantesche, e i reporter avranno delle escrescenze a forma di block-notes e di tasti martellanti di macchine da scrivere."
I Mutoid portano all’interno delle loro performance, road show e sculture meccaniche il relativismo e l’ibridazione di una società "mutante", facendo diventare la mutazione una pratica di vita, in un territorio in cui immaginari cyber, vita ed arte si contaminano a vicenda. Ed anche l’arte dei Mutoid è un tipo di arte interattiva, poiché durante le loro performance coinvolgono direttamente il pubblico, che è costretto a scappare o a seguirli conseguentemente alla devastante entrata in scena delle loro sculture meccaniche in movimento. Le performance dei Mutoid puntano infatti sul fattore sorpresa nella sua manifestazione più estraniante e vanno a scardinare direttamente le appartenenze rigide a cui si può essere abituati.
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La Fura Dels Baus
Anche il gruppo di teatro sperimentale de La Fura Dels Baus mette in scena, all’interno di performances multimediali fatte di recitazione, rituali tribali, musica e scontro-fisico, delle macchine-mostri meccanico cibernetiche. Per questo i membri del gruppo si definiscono "Cyberprimitives". Nei primi spettacoli degli anni Ottanta l’uso delle macchine era finalizzato a costituire un contrasto simbolico con l’azione teatrale corporea, veicolo invece di energia vitale: erano chiamate "automatics" e il loro funzionamento, ispirato ai futuristi italiani, era autonomo, con lo scopo di produrre effetti sonori e rumori scenografici. Di solito si attivavano autonomamente qualche minuto prima o dopo dell’azione teatrale. Carlos, un membro della Fura sostiene: "Per costruirle avevamo usato un motore di lavatrice, al quale abbiamo applicato una ruota di bicicletta che faceva a sua volta funzionare una ruota dentata che metteva in azione un braccio meccanico. Questo colpiva diversi oggetti sonori come una lamina metallica, un bidone, una bottiglia, dei piatti. Avevamo anche un’affettatrice che faceva vibrare una corda di banjo. Tutte queste macchine avevano un nome differente: ce n’era una che si chiamava folklorica, che produceva suoni molto acuti, una che si chiamava jazz che suonava la corda del banjo e il charleston, un’altra che si chiamava heavy che suonava un bidone e una spranga di ferro, un’altra che si chiamava bombero che aveva incorporata una cisterna d’acqua che veniva messa in circolo come fosse una doccia e produceva un rumore…fssss…che ricordava un estintore."
Negli spettacoli successivi del gruppo, le macchine coesistono con l’azione teatrale e si attivano insieme agli attori, producendo ancora musica ed effetti sonori, oppure odori piacevoli o sgradevoli. In più, grazie alle macchine, viene rivoluzionato anche il rapporto con il pubblico, che può interagire con gli elementi scenici e determinarne il "comportamento". Sempre nell’intervista citata sopra, Carlos dice: "Adesso stiamo progettando per il prossimo spettacolo una macchina che reagirà diversamente a seconda del comportamento del pubblico: quando la gente si avvicina e la tocca questa sputa o dà una scossa a basso voltaggio, secondo il principio del ‘pastore automatico’ che consiste in un filo elettrificato da 12 a 25 volt che impedisce alle vacche di uscire dal recinto. La nostra macchina verrà azionata da una cellula fotoelettrica e potrà produrre un rumore o tirare un poco di acqua, o un colpo o un odore."
Le macchine della Fura sono quindi legate all’azione corporea e plastica e uniscono la cibernetica alla performance tribale ed ancestrale, diventando estensioni del corpo durante le loro performance-rituali, che spesso acquistano caratteri molto violenti (di una violenza liberatoria). Anche i membri di questo gruppo, come i Mutoid, recuperano i loro materiali scenici fra i rottami, i cimiteri tecnologici, nei cantieri navali, nei reattori nucleari, nelle fabbriche, in cui di solito inscenano le loro pratiche. Uniscono inoltre alle macchine strumenti rituali come grosse campane o dei grandi tamburi di pelle di vacca provenienti dall’Aragona, in Spagna, in cui sono usati dalla "banda di Calanda" durante la settimana santa per suonare ininterrottamente da piazza in piazza la notte e il giorno di Venerdì, secondo una antica tradizione del luogo.
Nelle performance più recenti, gli attori interagiscono direttamente con i corpi virtuali di altri attori situati in luoghi fisicamente distanti. La tecnologia diventa quindi un mezzo di espressione corporea e un modo per mettere in scena una stile di vita che miscela rituali antichi a immaginari tecnologici futuristici.
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I Survival Research Laboratories (SRL)
Nel gruppo Survival Research Laboratories, attivo a San Francisco dal 1978, la performance diventa azione radicale dai forti connotati politici e controculturali.
La commistione fra organico ed inorganico nelle loro messe in scena è decisamente evidente e assume caratteri destabilizzanti e inquietanti: vengono unite grosse macchine a cadaverici residui animali, provocando scosse ed urti nell’immaginario degli spettatori, che si trovano davanti paesaggi vichinghici. Per esempio, a Copenaghen gli SRL hanno messo in scena uno spettacolo spaesante e destabilizzante, anche pericoloso, al fine di scuotere "la psiche scandinava intrappolata nella struttura regolare che la cultura impone". Nell’intervista a Mark Pauline, fondatore del gruppo, tale performance viene descritta così: "Abbiamo regalato a quella piccola sirenetta una struttura con due teste alte oltre 2 metri, costruita con una carcassa di vacca sistemata su un aggeggio in grado di scorrazzare ovunque, le sue zampe incrociate proprio sopra un tino, di circa 900 litri, pieno di formaggio andato a male e in ebollizione sopra un enorme fuoco di carbone. Avevamo anche innalzato enormi spire e altre strutture angolari in perfetto stile danese moderno: come le pile di legno sopra a un piedistallo ottagonale, molto regolare, molto razionalizzato, con un enorme teschio di vetro in cima. C’erano odoracci e, sullo sfondo, un enorme battello…con un’incredibile quantità di fumogeni, un gigantesco vascello che trascinavamo fuori dal molo, dove si svolgeva una scena di disastro vichingo, arricchita da un impatto intensamente emozionante sul finale.
In definitiva, era un modo per sollevare qualche interrogativo sui loro antenati che erano stati così pieni di energia vitale. E la reazione è stata incredibile, poiché, in quei luoghi, non avviene mai nulla di particolarmente straordinario. I media vi apposero il chiavistello, creando il caso."
La tecnologia postorganica è usata dal gruppo per creare condizioni al limite che facciano riflettere sull’apatia culturale, provocando emozioni forti negli spettatori e situazioni spesso rischiose, soprattutto nei primi spettacoli, in cui gli eventi messi in scena potevano avere sviluppi realmente incontrollabili (questo anche perché molta importanza era riservata agli aspetti casuali dell’azione). Nei primi spettacoli, infatti, venivano usati razzi non guidati e macchine che sparavano benzina. Successivamente gli SRL si sono orientati verso materiale relativamente meno pericoloso, ma non per questo di minor impatto sul pubblico, come macchinari a sei tamburi che allo scoppio fanno seguire una potente onda d’urto, generatori acustici a bassissima frequenza che provocano suoni destabilizzanti ed emozionalmente intrusivi per il pubblico. Tutto questo allo scopo di provocare reazioni ed emozioni molto forti in un pubblico spesso annichilito nella sua distrazione.
L’azione teatrale diviene diretta azione politica (anche se i membri del gruppo amano poco questa parola per la patina di finzione che spesso avvolge la pratica politica organizzata), come quella che lo stesso fondatore del gruppo ha portato avanti in passato, facendo manipolazioni sui cartelli pubblicitari. "I ‘pranks’ (‘scherzi’ o ‘burle’, N.d.T.), come ad esempio le manipolazioni sui cartelloni pubblicitari, sono degli attacchi costruiti contro la struttura della società, uno scoppio inaspettato.
L’inaspettato, l’elemento di sorpresa trasposto in atto mordace, che è, in ultima istanza, una violenza contro la società costituita."
Quindi si parte dalle azioni destabilizzanti e liminari per provocare riflessioni e sviluppare capacità di critica radicale verso l’eterodirezione sociale e culturale. Sempre Mark Pauline sostiene: "Penso che vi siano degli interessanti paralleli tra quello che facciamo noi, nelle performance e nelle presentazioni, e le cose connesse alla R.V. Nonostante le inevitabili limitazioni, noi tentiamo di creare delle situazioni che scatenino degli interrogativi e che permettano alla gente di troncare con la limitata realtà che hanno ora a disposizione, giocando con i simboli e prendendo in considerazione la confusione reale della nostra cultura. Sfruttiamo questo aspetto della cultura occidentale per realizzare degli spettacoli dove la gente interagisce come vittima, in un mondo abitato da macchine, costruito per soddisfare le esigenze di questi congegni meccanici antropomorfizzati."
Quindi anche nel caso degli SRL si gioca con i simboli della cultura (come teorizzava Victor Turner) per creare una riflessione critica sul reale partendo da messe in scena oppositive e scardinatrici delle consuete appartenenze.
Questo avviene nei terriotori di confine di un’arte che prende vita dall’incontro fra il corpo e la tecnologia, ambito in cui si possono inserire anche le pratiche corporee di Stelarc, performer australiano di origine greca, ma che ha lavorato e vissuto parecchio in Giappone.
Nelle pratiche di Stelarc si può scorgere quel legame di cui parlava Mark Pauline fra il mondo dell’azione corporea, la tecnologia e la Realtà Virtuale.
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Il performer Stelarc
Stelarc lavora sull’artificialità del corpo intesa come territorio di sperimentazione e mezzo con cui mettere alla prova e testare i limiti della componente organica del nostro corpo biologico. Stelarc vuole superare le limitazioni della "vecchia carne" sottoponendola a condizioni estreme e dimostrandone l’attuale obsolescenza, aprendo una via ai possibili innesti tecnologici. Le pratiche di Sterlac vogliono quindi quasi essere sperimentazioni scientifiche e vanno al di là dei masochismi espliciti degli "Azionisti Viennesi" degli anni Sessanta-Settanta, che inscenavano performance con violente mutilazioni corporee autolesioniste e non vogliono neanche essere azioni artistico-espressive corporee come quelle di molta Body Art. La tecnologia non è vista come qualcosa di opprimente e castrante, bensì come mezzo per amplificare l’azione corporea ed arrivare alla costruzione di un "organismo nuovo", un cybercorpo, che, tramite la tecnologia, può allargare l’area dell’esperienza e aprire la strada verso possibilità insperate.
La tecnologia implosiva (innestata all’interno del corpo), secondo Stelarc, potrà arricchire e diversificare il genere umano, che sarà così in grado di autodeterminare la sua evoluzione, a seconda dei suoi bisogni e desideri personali.
In un’intervista del 1992 riportata nella rivista inglese Variant, Stelarc afferma: "Siamo giunti a un punto nel nostro sviluppo post-evoluzionistico in cui la normale evoluzione organica darwiniana non è più determinata dai fattori presenti nella biosfera, dalle forze gravitazionali. Adesso lo è dalla spinta delle informazioni, abbiamo accumulato questo input che produce questi desideri di esplorare, estendere, amplificare, valutare, diagnosticare maggiormente. Così ciò che ha inizio come strategia evoluzionistica, questa curiosità che è essenzialmente il risultato della nostra mobilità e percezione, ora giunge a un punto in cui questa accumulazione (di informazioni) comincia ad avere una propria dinamica e direzione e agisce da propulsore per il corpo e lo forgia in nuove forme. Il campo dell’informazione ora modella la struttura del corpo."
All’inizio, secondo questi dettami, Stelarc opera pratiche di autoresistenza corporea, sottoponendo il suo corpo a condizioni di limite psicofisico: sono un esempio di questo le "sospensioni" che egli inscenò nei primi anni della sua azione artistica (primi anni Settanta), in cui sospendeva in aria il suo corpo prima retto da imbragature, poi da ganci infilzati nella pelle (come alcuni rituali sciamanici).
In questo modo il corpo viene "educato" alla resistenza e al superamento delle condizioni limite, come in alcune forme di ritualità orientale e di teatro giapponese, al fine di studiarne le dinamiche strutturali in seguito agli interventi diretti perpetuati dall’uomo e dalla tecnologia su di esso.
Ma le vere e proprie pratiche di ibridazione tecnologica iniziano con gli esperimenti della "terza mano" di Stelarc (iniziati nel 1984): qui la struttura corporea viene amplificata attraverso una protesi meccanica di una mano che viene interfacciata al corpo umano (il progetto si basava su un prototipo sviluppato presso la Waseda University di Tokyo). Mentre le "sospensioni" richiamavano l’idea di un corpo attraversato dal flusso tecnologico per il suo ergersi nel vuoto quasi in una progressiva smaterializzazione, con gli innesti tecnologici il corpo si fa realmente contaminato dalla tecnologia. La mano artificiale presenta cinque dita che possono flettersi tramite un motore applicato localmente e il suo movimento viene generato dallo stesso Stelarc, poiché la mano, disposta sul braccio destro, è collegata a dei sensori collocati sul braccio sinistro, l’addome e le cosce. I sensori captano le contrazioni dei muscoli di queste zone del corpo e li amplificano elettricamente, facendoli interpretare da un programma che li interfaccia ai vari movimenti della mano meccanica, che può essere così controllata dal performer.
Ancora più ad effetto è la performance "scultura per stomaco" del 1993, in cui Stelarc ingoia una capsula fatta di acciaio al titanio, argento e oro, collegata tramite un filo ad un servomeccanismo comandato da un circuito logico. Il processo di ingestione viene ripreso da una telecamera miniaturizzata endoscopica e, quando la capsula arriva nello stomaco, si apre attivando il servomeccanismo ed iniziando ad emettere luci e suoni. Qui il corpo si fa "cavo", ma la vera smaterializzazione si ottiene con la performance del 1994, che fa uso dello "Stimbod" (stimolatore muscolare multiplo): tramite il mouse o un touch screen del computer, che può anche essere collegato via modem, vengono inviate delle scariche elettriche di medio voltaggio su alcune zone del corpo del performer, i cui muscoli cominciano a muoversi in modo involontario. Questo sistema è usato in "Ping Body", una delle performance di Stelarc più recenti, che "indaga le possibilità di controllo a distanza dei corpi attraverso l’uso di stimolatori muscolari ed un collegamento in rete: ‘pensate alle applicazioni nel campo del NetSex. Mentre mi trovo qui [in Italia] posso parlare con la mia donna in Australia munita del mio stesso equipaggiamento. Se mi carezzassi il petto, lei di riflesso, e quasi del tutto involontariamente, si toccherebbe il seno, e il suo tocco verrebbe ritrasmesso a me in un reciproco amplificarsi delle sensazioni.’ L’equipaggiamento cui Stelarc si riferisce rende molto concreta l’idea di ‘protesi’ della quale McLuhan ha molto parlato. Un intrico di cavi sulla pelle, quasi secondo sistema nervoso, in un tentativo di cancellazione del confine interno/esterno. Pelle che non è più ‘un limite esclusivo, ma un’interfaccia di comunicazione con la macchina e con i sistemi sensoriali tecnici […]’."
Il corpo, nelle performance di Stelarc, si fa quindi oggetto di riprogettazione, di sperimentazione tecnologica, viene programmato per modificare la sua struttura. Questo però non è visto da Stelarc come una forzatura castrante per tutti gli individui: per lui è una scelta, una forma di libertà soggettiva.
Stelarc sostiene: "Io non voglio che gli individui siano costretti a riprogettare il proprio corpo, sto solo esplorando delle vie attraverso le quali chi lo vuole possa farlo. E potrebbero volerlo fare perché il corpo è diventato sempre più obsoleto nell’ambiente ad alta densità di informazione che l’uomo stesso ha creato. Nessuno può sperare di assorbire e processare in modo creativo tutta questa informazione. La tecnologia, con tutte queste macchine che sono più precise e potenti del corpo, lo ha accelerato: il corpo vive ormai in condizioni di gravità zero, o di velocità di fuga da un pianeta. Per questo ritengo che esso sia biologicamente inadeguato. L’approccio ergonomico non ha più senso. Non si può continuare a progettare una tecnologia per il corpo quando la tecnologia usurpa e surclassa il corpo in continuazione. E’ ora invece di adeguare il corpo alla macchina, di dargli un’accelerata. Nella connessione alle reti cyber, per esempio, siamo ancora limitati dalle tastiere, e altri dispositivi del genere. Il collegamento diretto al cervello non è solo una fantasia fantascientifica, è già un’esigenza reale."
La posizione di Stelarc è abbastanza estrema e molti lo hanno accusato di non occuparsi a fondo delle conseguenze sociali ed individuali che simili mutazioni potrebbero comportare.
Le sue pratiche comunque non lasciano indifferenti verso certi scenari di postumanità e scatenano parecchi interrogativi e riflessioni in chi vi assiste. Sono inoltre uno specchio degli immaginari della nostra epoca e, attraverso queste, è possibile vedere concretamente realizzate le tendenze ibridanti e mutanti che hanno animato tanta letteratura del nostro secolo (come il cyberpunk) e preparare la nostra mente al mutamento dei corpi cui le tecnologie ci stanno progressivamente portando.
Le riflessioni di Stelarc si avviano verso la smaterializzazione del corpo e la mutazione/dissolvenza della carne in reticoli di dati, immersa nelle derive di uno spazio virtuale. La pelle diventa uno schermo, la superficie per tanti evanescenti tatuaggi elettronici. Il corpo si espande nelle trame del cyberspazio, il non-luogo senza frontiere evocato dai romanzi di William Gibson, un’interzona in cui non solo dilatare le potenzialità del corpo umano, ma anche pervenire a maggiori forme di libertà e democrazia universale.
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Lo spazio virtuale come territorio di pratiche di liberazione: da Timothy Leary agli Hackers ai Cyber Rights
Il virtuale e Timothy Leary
Nell’idea di spazio virtuale tipica del movimento Cyberpunk, si sottolineano le possibilità aperte dall’integrazione uomo-macchina e dalla smaterializzazione del connubio mente-corpo nell’universo reticolare dei dati del cyberspazio. Andando oltre gli immaginari che la commistione corpo-macchina può evocare, tali pratiche nei mondi virtuali, sono state subito associate (come nel romanzo Neuromante di Gibson del 1984, da cui è nato il termine Cyberspace), alla possibilità di pervenire ad una maggiore democratizzazione delle informazioni ed a maggiori diritti sociali e politici individuali (e collettivi).
Già nelle teorizzazioni di Timothy Leary si poteva scorgere il desiderio di espandere la sfera delle libertà autodeterminando il proprio universo percettivo e con l’avvento del computer queste aspettative sono state riversate proprio nel mondo delle reti e dei bit, come territorio incontaminato per sviluppare e mettere in pratica strategie libertarie. "Subiamo mutazioni e diventiamo un’altra specie - dall’Acquario al Terrario - e ora ci spostiamo verso Ciberia. Siamo creature che strisciano verso il centro del mondo cibernetico. Ma la cibernetica è la materia di cui è fatto il mondo. La materia non è altro che informazioni congelate…Matter is simply frozen information…Chi critica l’epoca delle informazioni vede tutto in negativo, come se la quantità delle informazioni potesse condurre alla perdita di significati. Dicevano così anche di Gutemberg…Mai in passato l’individuo ha ricevuto tanto potere. Ma nell’Epoca delle informazioni è necessario riuscire a fare uscire le informazioni. Populizzarle significa metterle a disposizione del pubblico. Oggi il ruolo del filosofo è quello di chi personalizza, popolarizza e umanizza le idee del computer in modo che la gente possa sentirsi a proprio agio con queste idee…Il fatto è che qualcuno di noi ha visto cosa accadeva, e abbiamo strappato alla CIA il potere dell’LSD; ora togliamo alla IBM il potere dei computer, proprio come abbiamo strappato ai medici e agli analisti la psicologia. In ciascuna generazione ho fatto parte di un gruppo di persone che, come Prometeo, ha lottato contro il potere per restituirlo all’individuo."
Timothy Leary quindi vede nel computer un potente mezzo di apertura, sia mentale che comunicativa, e luogo di creazione di una seconda realtà aliena dagli interessi particolaristici del Potere: "Ora possiamo creare realtà elettroniche dall’altra parte dello schermo non soltanto con una tastiera o con un joistick o un quanto. Indossiamo l’interfaccia - ciberguanti, cibervisori, cibercappelli, cibercanottiere, cibercalzoncini! I movimenti del nostro corpo creano le immagini sui nostri schermi. Camminiamo, parliamo, danziamo, galleggiamo in mondi digitali, interagiamo sul video con altri, collegati alle nostre reti.
Quella dei cibervestiti è una tecnologia mutazionale che consente al cervello dell’individuo di vivere le EEC (esperienze extracorporee) in modo non diverso da quello in cui i terravestiti, con le gambe ed i polmoni consentirono ai pesci di sfuggire all’acqua (esperienze EEA, extra-acquatiche). I ciberindumenti consentiranno al singolo individuo di attraversare il muro ittico e di incontrarsi e di interagire con altri nel ciberspazio."
Al di là dello spirito estremamente positivista di Leary e delle sue spesso esagerate esaltazioni per la tecnologia virtuale, è interessante notare nelle sue parole, la volontà di dare un senso alternativo alle tecnologie informatiche e di orientarne l’utilizzo verso forme di maggior partecipazione collettiva, paventando la possibilità per ognuno di collegarsi in tempo reale con tutte le banche dati del mondo (tramite le strumentazioni Cyber).
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Le pratiche dei phonephreaking e degli hackers
Approdare ad una comunicazione realmente orizzontale e democratica è l’obiettivo che si prefissero molti individui a partire dagli anni Cinquanta, che si fecero artefici di numerose pratiche oppositive, lottando per i diritti d’informazione e di comunicazione del singolo e della collettività al di fuori delle strategie di mercato e delle multinazionali. Si è cercato di rompere il filo unidirezionale che lega detentore dei servizi comunicativi-utente, permettendo al singolo di poter agire dal basso e a seconda dei suoi reali bisogni comunicativi e informazionali.
Gli immaginari del Cyberpunk sono realmente messi in atto: tali pratiche oppositive sono state infatti fonte di ispirazione per tanti scrittori Cyber, ma la loro portata non si esaurisce affatto con l’affermarsi del movimento, bensì continua ancora oggi a far sentire la sua presenza in tanti avvenimenti di telematica antagonista (h @ c k t ! v i ~ m) che sono ispirati dalle stesse motivazioni di orizzontalità comunicativa.
Le prime pratiche orientate da questi ideali sono quindi datate anni Cinquanta-Sessanta, che vedono in azione alcuni individui denominati Phonephreaking (anni Sessanta) e altri che oggi sono abitualmente chiamati Hackers (dagli anni Cinquanta in poi).
I Phonephreaking storici, gli americani Capitain Crunch e Richard Cheshire, diedero vita alla pratica del pirataggio telefonico, finalizzata a truffare la Bell Company, la compagnia telefonica americana, permettendo a tutti di telefonare gratis in maniera incondizionata.
"Soffiando difatti in uno di quei fischietti di plastica, in omaggio nelle confezioni di cornflakes, Crunch scoprì che le centraline telefoniche automatizzate decodificavano i segnali emessi dagli apparecchi telefonici, utilizzando una serie di frequenze sonore sufficientemente alte. Scoperta la frequenza giusta si aveva quindi la possibilità di telefonare gratuitamente in giro per il mondo. Immediatamente comunicata l’incredibile scoperta, attorno a Crunch in poco tempo si aggregò un discreto gruppo di pirati telefonici, che iniziarono sempre più a diffondere questo tipo di pratica. Richard Cheshire, uno del gruppo in questione, fondò […] un giornale. Esso aveva come proprio indirizzo programmatico quello di socializzare il più possibile questo ambito di conoscenze, e in particolare diffondere un uso alternativo della tecnologia. Non più quindi sapere esoterico, sapere tecnico rivolto a pochi specialisti, ma sapere pratico, con tanto di istruzione dettagliate sul come fregare l’azienda del gas o autocostruirsi le magiche boxes per truffare la Bell Company. […] Inquisito per molto tempo dagli apparati di sicurezza americani, Cheshire riuscì sempre a evitare grossi guai grazie al suo escamotage di dire che quello che veniva pubblicato, era editato con l’avvertenza di non farlo. Ma le sue istruzioni erano talmente dettagliate da far sorgere ben più di qualche vago sospetto."
L’azione dei Phonephreaking era quindi orientata ad un utilizzo collettivo della tecnologia, al fine di una diffusione generalizzata del sapere e dei mezzi di comunicazione.
La collettivizzazione dei mezzi di comunicazione veniva anche praticata dai Phonephreaking attivando delle "Phone-Chat", zone di discussione libera in qualche zona "virtuale" dei collegamenti telefonici, in cui ci si dava appuntamento per dialoghi di gruppo (una forma molto rudimentale della Chat Line telematiche di oggi).
Con l’azione degli "smanettoni del computer", gli Hackers, tali istanze di diffusione orizzontale e collettiva degli strumenti comunicativi, nonché di lotta contro il potere accentrato delle multinazionali, vengono riversate nel mondo informatico.
E’ importante sottolineare che con la parola hacker si intende una vera e propria etica, un modello di vita e di azione dettato da profondi principi di collettivismo e di orizzontalità, mentre in passato (ma anche recentemente) questa parola è stata erroneamente associata ad un tipo di pratiche distruttive e criminali attuate a danno di terzi nel mondo informatico.
Questo fenomeno è ben descritto nel testo Hackers - Gli eroi della rivoluzione informatica di Steven Levy: "Per molti veri hacker la popolarizzazione del termine fu una catastrofe. Perché? La parola hacker aveva acquisito una connotazione specifica negativa. Il problema cominciò con arresti molto pubblicizzati di certi adolescenti che si avventuravano elettronicamente in territori digitali proibiti, come per esempio i sistemi computerizzati governativi. Era comprensibile che i giornalisti che riportavano queste storie si riferissero ai giovani scapestrati come a degli hacker, dopotutto si facevano chiamare così. Ma la parola divenne rapidamente sinonimo di ‘trasgressore digitale’.
Nelle pagine delle riviste, negli sceneggiati televisivi e nei film, nei romanzi sia scandalistici sia prestigiosi, emerse uno stereotipo: l’hacker, un secchione antisociale il cui attributo identificativo era l’abilità di sedere davanti alla tastiera ed evocare una magia criminale. […] Stando a questa definizione, l’hacker è, se gli va bene, un’entità benigna, un ingenuo che non comprende i suoi veri poteri. Se gli va male, è un terrorista. Pochi anni fa, con la comparsa dei virus informatici, l’hacker era stato letteralmente trasformato in una forza del male.
E’ vero, alcuni dei più ortodossi hacker della storia si erano fatti conoscere per non tenere in gran conto dettagli come la violazione di proprietà o il codice penale, proprio per seguire l’imperativo di metterci su le mani di persona e gli scherzi sono sempre stati parte dell’hackeraggio. Ma la deduzione che queste goliardate fossero l’essenza dell’hackeraggio non solo era sbagliata, ma era offensiva per i pionieri dell’hacking, il cui lavoro aveva cambiato il mondo e i cui metodi potevano cambiare il modo in cui uno lo vedeva."
Dopo aver precisato cosa gli hacker non sono, è bene soffermarsi su cosa sono e sono stati a partire dagli anni Cinquanta.
L’etica hacker si può riscontrare nel pensiero di uno dei primi attivisti tecnologici, in azione già dagli anni Sessanta: Lee Felseinstein. "Felseinstein è uno dei più coscienti teorici della necessità di passare ad una concezione positiva del computer. Egli in sostanza afferma che la pratica dell’hackeraggio ha valore oggi solo per dimostrare alle grandi multinazionali, che è impossibile per loro credere di poter monopolizzare e stockare tutte le informazioni. Lo strumento computer è uno strumento per definizione democratico, aperto all’utilizzo di tutti. Non deve esistere uno stato che possa accentrare a sé tutti i dati e tutte le informazioni che tramite le reti vengono scambiati. L’hackeraggio serve quindi a mostrare nei fatti questa impossibilità. La battaglia condotta dal capitale per il controllo segreto dell’informazione è quindi una battaglia arretrata, una lotta di retroguardia. Sull’altro versante, reagendo all’impoverimento comunicativo che l’era del villaggio globale sembra imporre, Felseinstein teorizza del resto la necessità di attivare sempre più reti comunicative. Reti queste che devono essere concepite […] sul modello rizomatico."
Il modello rizomatico è un modello interattivo e reticolare di comunicazione, che permette la diffusione e veicolazione del sapere in modo orizzontale, senza un centro che funga da emittente privilegiato. Tutti potenzialmente possono essere emittenti e ricettori e la comunicazione deve essere libera e incontrollata, sottoforma di un flusso di dati avulso da distorsioni o mediazioni ufficiali. Nel modello rizomatico tutti contano allo stesso modo e nessuno può sentirsi autorizzato a prevaricare sugli altri. Esistono svariati nodi di comunicazione, che non possono essere controllati o gestiti da un unico apparato, anche perché limitandone uno, non si genera automaticamente il blocco delle attività degli altri, che risultano di pari importanza nella struttura comunicativa a rete.
Oggi quindi la pratica dell’hackeraggio è immediatamente collegata alla Rete Informatica, ma le prime pratiche hacker risalgono agli anni Cinquanta, quando i calcolatori erano ancora a schede perforate. Allora alcuni studenti del MIT di Boston erano riusciti ad entrare nel computer centrale della scuola, il cui accesso era riservato solo a professori ed affini.
Ma fu negli anni Settanta che le pratiche hacker si fecero più frequenti., fino ad intervenire nello stesso fenomeno Silicon Valley.
Negli anni ’80 sono da ricordare le pratiche del gruppo Chaos Computer Club di Amburgo, che si sono battuti per una maggiore socializzazione degli strumenti e del sapere informatico.
Degno di nota è stato l’episodio ai danni del BTX, il servizio di telecomunicazioni Telebox, elaborato dalle poste tedesche in collaborazione con l’IBM, avvenuto nel 1984 e che portò al fallimento dello stesso progetto. "Tramite questo servizio computerizzato gli utenti registrati potevano ricevere comunicazioni personali o mandarle ad un altro abbonato o addirittura prenotare merci o servizi. Ciò risvegliò in molti ambiti del movimento, e non solo in questi, preoccupazioni molto fosche riguardanti le libertà future dei singoli cittadini. E’ da ricordare che quasi contemporaneamente il governo tedesco lanciò l’iniziativa, poi sostanzialmente fallita, del censimento informatizzato di tutti i tedeschi, da poi immettere nei computer centrali di Wiesbaden. […] Per far fallire il progetto del BTX, il CCC inventò una beffa enorme ai danni di una cassa di risparmio di Amburgo, l’Haspa, che in un primo tempo versò loro 135.000 marchi. Il CCC difatti con un sotterfugio riuscì a conoscere la pass-word per entrare nel computer centrale dell’Haspa, e lasciargli quindi in memoria l’ordine di richiamare in maniera continua il servizio offerto nel BTX dal CCC. L’Haspa richiamò così 13.500 volte il servizio in questione in circa dodici ore. I 135.000 marchi furono così calcolati e versati al Chaos Computer Club con la bolletta telefonica del novembre 84. La bolletta esiste veramente e così anche l’abbuono, ma immediatamente il CCC rese pubblica la vicenda, dichiarando che non voleva ritirare il denaro, visto che il fine dell’azione era solo di rendere note le gravi lacune presenti nel BTX. Il CCC per di più affermò di aver ricevuto la parola chiave della banca proprio attraverso un errore di sistema del BTX. Più precisamente tramite un’emissione incontrollata di pagine di decodificazione." Da questo episodio clamoroso, si evince anche chiaramente qual è lo spirito hacker, che agisce per motivi di interesse collettivo e non sfrutta i media informatici per tornaconto personale.
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Against All Kinds of SocialBarriers, CYBER RIGHTS NOW!
Oggi il tipo di pratiche descritte in precedenza hanno preso forma nella lotta nel mondo della Rete per garantire all’individuo determinati diritti e una diffusione maggiormente democratica delle informazioni. Viene sostenuta attivamente l’idea di utilizzare la Rete per creare reti di relazioni orizzontali fra gli individui, al fine di permettere un fluire comunicativo libero e incontrollato. Si evidenzia quindi l’importante possibilità di creare dei collegamenti fra Isole nella Rete, spazi liberi di discussione e di circolazione autogestita di informazioni.
Vengono direttamente alla mente le Utopie Pirate di Hakim Bey, le isole dei pirati collocate all’interno della loro "rete di informazione", che si estendeva nei mari del globo. "Sparse attraverso la rete erano isole, remoti nascondigli dove le navi potevano venire rifornite di acqua e cibo, il bottino scambiato per necessità e lussi. Alcune di queste isole sostenevano ‘comunità internazionali’, intere mini-società che vivevano coscientemente al di là della Legge e decise a rimanerci, anche se solo per breve ma felice esistenza."
Lo stesso Hakim Bey aggiunge che l’idea romantica di queste enclavi pirata con la tecnologia può trasformarsi in una reale Rete di zone autonome: "Io credo che estrapolando da storie del passato e del futuro a proposito di ‘Isole nelle Rete’, potremmo collezionare prove per suggerire che un certo tipo di ‘enclave libera’ è non solo possibile ai nostri giorni, ma anche esistente. Tutta la mia ricerca e speculazione si è cristallizzata attorno al concetto di ZONA AUTONOMA TEMPORANEA (d’ora in avanti abbreviato in TAZ). Nonostante la forza sintetizzante che ha per il mio pensiero, non voglio però che la TAZ venga presa come altro che un essay (‘tentativo’), un suggerimento, quasi una fantasia poetica. Nonostante l’occasionale entusiasmo da predicatore, non sto cercando di costituire un dogma politico. Difatti ho deliberatamente evitato di definire la TAZ - giro intorno all’argomento sparando raggi esploratori. Alla fine, la TAZ si spiega quasi da sé. Se la frase diventasse di uso corrente sarebbe compresa senza difficoltà…compresa in azione."
Ed infatti la TAZ deve farsi pratica reale per essere compresa, come lo sono state le pratiche degli hackers e lo sono quelle di tutti coloro che oggi si battono attivamente per conferire alla Rete il carattere di zona democratica e di comunicazione orizzontale.
Un teorico che sottolinea l’aspetto di potenziale ampliamento della democrazia e della diffusione del sapere attraverso i nuovi media telematici è Pierre Lévy che, nel suo testo L’intelligenza collettiva, immagina le possibili finalità da assegnare ai nuovi strumenti di comunicazione in vista della creazione di una democrazia diretta e di modalità di circolazione delle informazioni realmente orizzontali e collettive. Ragionando su tali finalità egli afferma: "Forse l’utilizzo socialmente più utile sarebbe quello di consentire ai gruppi umani di mettere in comune, attraverso l’impiego [delle nuove tecnologie informatiche], le rispettive forze mentali al fine di costituire degli intellettuali e immaginari collettivi. L’informatica della comunicazione si presenterebbe allora come l’infrastruttura tecnica del cervello collettivo o dell’ipercorteccia delle comunità viventi. Il ruolo dell’informatica e delle tecniche di comunicazione a supporto digitale non consisterebbe nel ‘rimpiazzare l’uomo’ e neppure nell’avvicinarsi ad un’ipotetica ‘intelligenza artificiale’, ma nel favorire la costituzione di collettivi intelligenti in cui le potenzialità sociali e cognitive di ciascuno possano svilupparsi e ampliarsi reciprocamente. Secondo questo approccio, il maggior progetto architettonico del XXI secolo consisterà nell’immaginare, costituire, sistemare l’ambito interattivo e mutevole del cyberspazio. Forse allora sarà possibile lasciarsi alle spalle la società dello spettacolo per inaugurare un’era post-mediatica, nella quale le tecniche di comunicazione serviranno a filtrare i flussi di conoscenze, a navigare nel sapere e a pensare insieme piuttosto che a trasportare masse di informazioni."
Il cyberspazio è visto quindi come un territorio di confronto reciproco e di relazioni collettive, in cui dispiegare il proprio sapere intellettuale, una metafora delle reti neurali del nostro cervello, in cui le informazioni viaggiano libere e secondo dinamiche rizomatiche.
E’ il pensiero che lega gli appartenenti alle diverse TAZ, alle comunità virtuali, che possono confrontare il loro sapere in un territorio immateriale e da costruire a seconda dei bisogni e delle riflessioni di chi vi naviga, dando origine ad un’ipercorteccia collettiva che sarà formata da tutti gli individui pensanti che agiranno nel cyberspazio. Al proposito Lévy afferma: "Il cyberspazio cooperativo deve essere concepito come un vero servizio pubblico. Questa agorà virtuale faciliterebbe la navigazione e l’orientamento all’interno della conoscenza, favorirebbe gli scambi di sapere; accoglierebbe la costruzione collettiva del senso; offrirebbe visualizzazioni dinamiche di situazioni collettive, consentirebbe infine la valutazione, in base a una molteplicità di criteri, di una grande quantità di proposte, informazioni e processi in atto. Il cyberspazio potrebbe diventare il luogo di una nuova forma di democrazia diretta su vasta scala." E ancora sostiene: "Il cyberspazio potrebbe ospitare dispositivi di enunciazione che producono sinfonie politiche viventi, che consentano ai collettivi umani di inventare e di esprimere di continuo enunciati complessi, di dispiegare il ventaglio delle singolarità e delle divergenze senza per questo ricadere in forme precostituite. La democrazia in tempo reale mira alla costituzione di un ‘noi’ il più ricco possibile, il cui modello musicale potrebbe essere il coro polifonico improvvisato".
Il Cyberspazio è visto quindi come un luogo in cui la collettività può agire in uno spazio globale, ma non per questo uniformante: l’individuo può sentirsi parte di una collettività mondiale, ma senza dover rinunciare ai suoi bisogni informativi individuali. Il termine glocalismo connota l’essenza delle comunicazione in Rete, che si caratterizza dal coro mondiale dei pensieri individuali e comunitari, un coro quindi polifonico e che rispetta le differenze, senza renderle limitazioni stigmatizzanti. Attraverso le tante comunità virtuali l’individuo può trovare e sperimentare nuove appartenenze e nello stesso tempo agire in un universo deterritorializzato, transculturale e transnazionele di dati ed informazioni (basta pensare alle comunità che si creano fra gli utenti di Internet nelle tante chat, mailing-list, newsgroup, che associano persone con interessi comuni nel territorio virtuale).
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Queste teorizzazioni altamente ottimistiche certamente mettono a fuoco gli aspetti più evocativi della Rete, che vanno sicuramente preservati, però non devono far dimenticare che con l’emergere dei mezzi informatici e telematici ci sono nuovi diritti per cui lottare, che se sottovalutati possono dar vita a nuove e profonde esclusioni sociali e nuove strategie di controllo autoritario.
La telematica antagonista odierna (di cui parlerò più specificatamente in seguito), colloca nel prioritario raggio d’azione la battaglia per i CYBER RIGHTS, i diritti cyber, che rientrano nella più generale sfera del Diritto alla Comunicazione.
I CYBER RIGHTS principali sono:
- diritto all’interattività di un sistema di comunicazione;
- diritto all’anonimato dell’utenza finale;
- diritto alla riproduzione dell’informazione;
- diritto alle infrastrutture comunicative.
Ferry Byte e Stefano Sansavini (del gruppo sulla comunicazione sTRANO nETWORK, che si è impegnato attivamente per garantire un sistema di comunicazione aperto), ne danno una descrizione molto approfondita nel testo Net Strike- No copyright- Et (-:.
Parlando del primo diritto da preservare, sostengono: "Forse il più importante dei diritti, l’interattività di un sistema di comunicazione, è la possibilità offerta dal sistema di comunicazione all’utente finale, di poter partecipare al processo informativo in maniera attiva. Interattiva, cioè, come possibilità di non essere solo fruitori passivi di contenuti di volta in volta immessi dai soliti padroni dei media, ma utilizzare invece tutte le potenzialità dei nuovi mezzi comunicativi in termini di flusso di informazioni e comunicazione nei due sensi. Un sistema in cui i ruoli del lettore e dello scrittore sono intercambiabili e si confondono continuamente restituendo, quindi, finalmente, il diritto inalienabile ad utilizzare qualsiasi mezzo di comunicazione che il progresso metta a disposizione. Mentre rispetto ai sistemi di comunicazione tradizionali l’utente finale è o completamente passivo oppure relegato in piccoli spazi di comunicazione molto modesti (le lettere al Direttore di un giornale, le telefonate ad un programma televisivo, gli interventi estemporanei ad una radio) e comunque sempre regolato da conduttori o responsabili dei vari media, in un sistema telematico vi è la possibilità, offerta dalle caratteristiche tecnologiche intrinseche della telematica stessa, di vivere come utente una vita attiva all’interno del sistema di comunicazione, in cui poter scrivere, intervenire con suoni, immagini o testo in qualsiasi momento ed in qualsiasi spazio del sistema di comunicazione stesso."
Si cerca quindi di preservare la possibilità per l’utente di poter comunicare liberamente, autogestendo i suoi canali di comunicazione, divenendo il protagonista nello scambio di informazioni, che dovrà essere necessariamente orizzontale ed interattivo.
Il secondo diritto fondamentale è il diritto all’anonimato (o alla privacy) del cittadino. Di fronte al potenziale maggiore controllo dell’individuo causato proprio dai mezzi tecnologici più recenti come telecamere sul territorio, telefoni cellulari, carte di credito, reti telematiche stesse, è necessario diffondere nella Rete strategie di protezione personale da eventuali intrusioni nel privato non autorizzate. Riguardo a questo discorso, sempre Ferry Byte e Stefano Sansavini affermano: "E’ per questo tipo di ragioni che difendiamo tutta una serie di atteggiamenti in ‘rete’, che vanno dall’uso dell’anonimato a quello della crittografia. Non si capisce infatti perché dovremmo regalare, oltre a quello che regaliamo involontariamente tutti i giorni a Stato e potentati economici, ANCHE l’uso degli strumenti telematici per studiarci, catalogarci ed usarci come un nome da affiancare ad informazioni come ‘scrive spesso su conferenze politiche oppure sessuali oppure ambientali ecc. ecc.’. Il poter usare uno pseudonimo al posto della propria vera identità è solo un modo potenziale per l’utente finale di poter navigare all’interno delle reti telematiche senza la paranoia per qualcuno (in primo luogo il sysop o provider del sistema) mantenga la registrazione di quanto sto facendo per fini commerciali o di controllo. L’uso dello pseudonimo non, quindi, come garanzia assoluta, perché la traccia della telefonata comunque rimane come prova di eventuali illeciti, ma come garanzia minima per tutelarsi da operazioni di telemarketing o di controllo di basso profilo." Successivamente gli autori precisano in cosa consiste la crittografia, lo strumento più sicuro per garantire la privacy in Rete: "Per le stesse ragioni, auspichiamo l’uso della crittografia e in particolare di quella del tipo a chiave pubblica come il PGP per tutti quegli utenti che credono di doversi tutelare maggiormente, in particolar modo nello scambio di posta privata con gli altri utenti. Il PGP (Pretty Good Privacy) è un sistema di crittografia a chiave pubblica che è stato oggetto di iniziative giudiziarie degli USA da parte di chi avversa questi sistemi di riservatezza dell’utenza finale. L’inventore del PGP, Phil Zimmerman, è stato recentemente assolto dall’accusa di esportazione di materiale militare (così come era stato definito il PGP) e ciò ha permesso una diffusione ancora maggiore di questo strumento che permette una protezione quasi assoluta di quasi trasmesso per via telematica."
Il terzo Diritto Cyber è il diritto alla riproduzione (il No Copyright), che dovrebbe permettere di poter duplicare opere a livello di massa, senza limitazioni di esclusività. Questa è una grossa battaglia che si sta perpetuando contro i progetti di applicazione rigida del copyright sui mezzi di comunicazione (che assegna ad un "proprietario esclusivo" la possibilità di riproduzione dell’opera) a discapito di una libera circolazione e fruizione di materiale informativo. Attualmente si stanno portando avanti pratiche oppositive contro i recenti progetti che prevedono l’applicazione del copyright ad Internet (come l’americano "White Paper on Intellectual Property and the National Information Structure"), che vogliono controllare la trasmissione di opere in formato digitale, cosa che risulta inconcepibile in un universo come quello della Rete in cui le opere digitali risultano trasmissibili e copiabili con estrema facilità e in totale libertà. Queste manovre, oltre a ledere la possibilità di comunicazione libera e incontrollata in Internet, sono anche estremamente paradossali: per esempio, quando si accede alla Rete e si naviga, rimangono nella memoria cache immagini e pagine Internet in cui compaiono le interfacce grafiche dei browser tipo Netscape ed Explorer, e questo significherebbe averle acquistate e copiate illegalmente? Ferry Byte e Stefano Sansavini sostengono: "All’interno di Internet è fuori luogo applicare qualsiasi modello di ‘copyright rigido’ per ragioni prettamente tecnologiche. Su Internet non c’è bisogno di complesse apparecchiature per commettere infrazioni al copyright: basta un attimo per copiare un’opera digitale e distribuirla in migliaia di posti nel mondo. Se aggiungiamo la possibilità di servirsi dei reimailer anonimi, risulterà impossibile scoprire chi ha compiuto l’infrazione. Oltretutto, se venissero applicati severi controlli su Internet, vorrebbe dire tarpare le ali a quello che è prima di tutto un formidabile mezzo di scambio di conoscenze fra milioni di esseri umani, in un contesto dove non solo l’identificazione certa di chi è collegato o trasmette un tal documento è impossibile, ma è altamente improbabile anche l’attribuzione di originalità al documento stesso. L’informazione in formato digitale è troppo facilmente modificabile e trasmissibile, per pensare di poter applicare nelle reti telematiche lo stesso tipo di vincoli esistente nel mondo reale." Anche in questo caso la maggior preoccupazione è quella di vedere calare nubi grigie sulla possibilità di comunicazione libera e senza controlli offerta da Internet.
L’ultimo diritto per cui lottare è il Diritto alle infrastrutture di comunicazione: "Uno Stato veramente democratico e pluralista non dovrebbe limitarsi a tutelare la ‘libertà d’impresa’, ma soprattutto garantire i propri cittadini nella scelta fra associarsi a vettori privati che offrono servizi aggiuntivi e personalizzati oppure a vettori pubblici che garantiscono gratuitamente i servizi di comunicazione principali, al fine di poter assicurare anche ai meno abbienti la capacità di informarsi e comunicare."
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In Italia siamo di fronte ad un grosso impedimento per la diffusione massiccia e generalizzata dell’infrastruttura della Rete Internet, che è costituito dalla Tassazione Urbana a Tempo (TUT) praticata da Telecom Italia sulle chiamate urbane e quindi anche su quelle effettuate ai provider per poter navigare (cosa che per esempio non avviene in molti stati USA, in cui il canale mensile di abbonamento comprende un numero illimitato di telefonate all’interno del distretto). Il fatto di dover pagare spesso ingenti bollette telefoniche, unite al costo del servizio di connessione offerto dal provider prescelto e alla spesa per il materiale hardware necessario per navigare, scoraggia moltissimi potenziali naviganti ad effettuare l’abbonamento ad Internet, vedendosi quindi negata una maggiore possibilità informativa e comunicativa.
Ma mentre il costo degli strumenti di navigazione (il modem) e quello del servizio del provider sono in continua diminuzione (per esempio con il recente servizio Internet Provider offerto da Tiscali, che non prevede costi di abbonamento), la situazione nei confronti della TUT rimane stazionaria. Per di più la Telecom non solo registra gli scatti telefonici durante la connessione, ma anche prima di connettersi, immediatamente dopo aver composto il numero telefonico relativo al proprio servizio Internet Provider (in poche parole vengono addebitati scatti per un mancato servizio, cosa che accade se la linea risulta trafficata e la connessione non avviene al primo tentativo). A causa di queste limitazioni, sono attivi molti gruppi di individui che si battono per l’abolizione della Tassazione Urbana a Tempo. Un esempio di questa attività è il contenuto di questa e-mail, pervenuta alla mailing list Arti-Party il giorno Sabato 1 Maggio 1999:
* Movimento 'NoTUT' *
Il Movimento contro la Tariffa Urbana a Tempo per Internet
http://www.notut.org
Nuova Lista 'NoTUT' - notut-subscribe@onelist.com
6/5/99: NETSTRIKE CONTRO LA TUT!
A distanza di 5 mesi dalle grandi azioni di protesta che videro gli utenti
italiani di internet mobilitarsi contro gli assurdi aumenti della TUT
richiesti da Telecom Italia, il coordinamento NOTUT, in vista
dell'approvazione definitiva di questi aumenti (che potrebbero arrivare fino
al 30%), indice una nuova grande azione di protesta per il giorno
6 MAGGIO1999.
Si tratterà di un vero e proprio NETSTRIKE: l'accesso contemporaneo di un
gran numero di utenti al sito di Telecom Italia determinerà, se l'azione
avrà successo, il blocco temporaneo del sito, dimostrando così
all'ex-monopolista che gli utenti di internet non sono disposti più a
accettare, con gli aumenti della TUT che stanno per essere approvati, una
tariffa economicamente ingiustificata e penalizzante per l'uso della Rete,
come è quella a tempo imposta da Telecom Italia.
Maggiori informazioni su questo NETSTRIKE saranno disponibili, nei prossimi
giorni, sul sito www.notut.org, e saranno diffuse attraverso la
mailing-list di NOTUT, per iscriversi alla quale basta inviare una email
all'indirizzo: notut-subscribe@onelist.com
CON PREGHIERA DI MASSIMA DIFFUSIONE
IL COORDINAMENTO NOTUT- www.notut.org
--
"Tariffe a tempo sviluppano pensieri a breve termine"
(Nicholas Negroponte contro la TUT)
La nostra mailing-list: notut-subscribe@onelist.com
Visita il nostro sito: --> www.notut.org
IL 6 MAGGIO PROTESTA CON NOI!!!!!
***http://www.dada.it/arti-party***
In questa e-mail il "Movimento NoTUT" promuove un NET STRIKE contro la Tariffa Urbana a Tempo per Internet ed invita i cittadini della Rete a scendere nelle piazze virtuali.
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La pratica del NET-STRIKE nelle strade del cyberspazio
Il NET STRIKE è un mezzo di partecipazione collettiva per i naviganti della Rete utilizzato per portare avanti azioni dimostrative ed oppositive nel territorio virtuale. Si tratta, anche in questo caso, di una vera e propria pratica reale che avviene per mezzo di corpi virtuali, un modo per sfruttare le enormi potenzialità sociali e politiche che la Rete offre.
Tommaso Tozzi, nel testo Net Strike - No Copyright - Et (-: descive la pratica del NET STRIKE in questo modo: "Lo sciopero della rete è una forma di azione che restituisce all’individuo una possibilità per far sentire la propria voce all’interno delle dinamiche globali. Gli permette di non restare semplice spettatore delle scelte del club dei potenti di turno ma, così come per lo sciopero in fabbrica, gli consente di organizzare forme di protesta di massa contro ogni genere di ingiustizia e sopruso.
Il meccanismo di un net strike è analogo a quello di un corteo reale. Le dinamiche di un corteo per strada implicano la necessità di creare una situazione di paralisi del traffico, per ottenere l'attenzione della popolazione e dei media a cui rivolgere il proprio messaggio di protesta. Analogamente, un corteo in rete cercherà di paralizzare l'attività di un determinato server o del cavo a cui si appoggia per un determinato periodo di tempo e contemporaneamente promuoverà per le strade del cyberspazio la diffusione dei motivi dello sciopero. Tale paralisi sarà l’effetto dell’entrata in massa di migliaia di utenti contemporaneamente nel medesimo server. Poiché nel cavo telefonico usato per i collegamenti via Internet non passano più di un certo numero di chiamate contemporanee, il traffico del cavo dovrà disporsi in coda e si intaserà allo stesso modo di quello per le strade, rallentando le funzioni del server collegato a tale cavo, oltre all’andatura di ogni utente che percorre quella tratta, fino a bloccarne il cammino.
La riuscita di un net strike sarà dunque proporzionale al numero di utenti collegati e grazie a ciò si potrà constatarne la rappresentatività. Naturalmente, la forza del net strike risulterà dal suo essere riuscito a far circolare in tutto il mondo il comunicato che motiva lo sciopero.
Per garantire tale diffusione, ci sono diversi luoghi in Internet e nelle reti amatoriali (newsgroup, mailing list, conferenze echomail) che favoriscono la distribuzione e duplicazione del messaggio.
Ricevere un messaggio in Giappone di uno sciopero promosso da alcuni italiani, parteciparvi e constatarne la riuscita, può dare il senso della portata di una protesta, confermarne l’interesse e la solidarietà globale, essere lo stimolo per produrre nuove proteste al riguardo.
La pratica del net strike è uno dei tanti esempi di come, se usata secondo determinate metodologie, la rete può essere un luogo dove ognuno può rappresentare l’impulso propulsivo, la scintilla per coagulare interessi che riguardano e coinvolgono l’intera collettività."
Il primo NET STRIKE mondiale è stato effettuato il giorno 21/12/1995, organizzato dal gruppo sTRANO nETWORK per protestare contro gli esperimenti nucleari nel Pacifico ad opera del governo francese. Oggi il NET STRIKE è diventato una pratica diffusa per lottare contro le più svariate forme di oppressione e ingiustizie sociali (il NET STRIKE del "Movimento NoTUT ne è un esempio"), nonché per acquisire i Diritti Cyber descritti sopra.
Il NET STRIKE, unito alla lotta per la tutela dei Cyber Rights, si inserisce nell’insieme delle pratiche oppositive autodeterminate negli universi cyber e che vanno ad invadere grosse zone della nostra vita quotidiana, provocando una commistione fra mondo della tecnologia e della vita reale.
Gli immaginari cyber, che vedono il cyberspazio come un territorio in cui portare avanti strategie libertarie e battaglie sociali a favore della collettività, si fanno in questi contesti eventi reali e quindi in queste pratiche il Cyberpunk ritorna nel vivo della vita quotidiana, come lo era stato con gli hackeraggi del passato descritti sopra. La corrente letteraria che teorizzava l’ibridazione uomo-macchina e l’invasione dell’artificiale nel naturale, nonché lo svolgersi di determinate azioni antagoniste negli universi cyber, trova spazio concreto nei mondi dell’inconcretezza e diventa pratica reale.
Il Cyberspazio diventa il territorio di possibili eventi libertari e autogestiti: gli individui nel cyberspazio sono quello che pensano e che vogliono essere e si scardinano le consuete appartenenze geografiche, di classe, di status, di sesso, di etnia e religione. O meglio, queste possono trovare espressione in tante zone autonome, nei localismi comunitari della rete (nei glocalismi), rimanendo comunque nella maggioranza delle situazioni motivo di discussione orizzontale. Inoltre, queste appartenenze non sono mai realmente verificabili nel cyberspazio e per questo perdono il loro potere costringente che hanno nella vita sociale, diventando anch’esse territorio di sperimentazione, di gioco e di autodeterminazione liberata.
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Il corpo disseminato nella Rete come veicolo di autodeterminazione identitaria: identità nomadi e multiple nel Cyberspazio
Pratiche reali per identità virtuali
Ho vagabondato un po’ all’interno di The Internet.
Ho preso il mio zaino e in un modo o in un altro ho viaggiato in bellissime città virtuali, librerie elettroniche, musei, graffiti,…
Avevo la sensazione di essere un angelo che riesce ad entrare nelle case degli altri,
ma non poter farsi vedere, ascoltare, toccare.
A volte improvvisamente cascavo pesantemente dal cielo e diventavo umano, fatto di carne e ossa, gli altri mi vedevano e riuscivo a mostrare loro le mie foto, i miei ricordi, a fargli sentire la musica della mia chitarra.
Ma era raro.
Quasi casuale.
Nel mio vagabondare rimanevo quasi sempre un angelo che conosceva il paradiso e la terra ma era ad essi sconosciuto.
Non riuscivo ad "auto-determinare" la mia identità.
In quei pochi casi in cui mi trovavo ad essere uomo per presentarmi al mondo dovevo chiedere un’autorizzazione e aspettare che qualcuno si decidesse a presentarmi agli altri.
Tommaso Tozzi
Queste parole di Tommaso Tozzi mettono a fuoco una questione importante: avere la possibilità di utilizzare degli strumenti come Internet non significa necessariamente trovarsi ad agire indisturbati e senza limiti in un territorio incontaminato. Anche in uno spazio apparentemente libero come Internet certi diritti e certe libertà vanno conquistate e autodeterminate.
Infatti la tecnologia non dà automaticamente l’interattività, l’orizzontalità e la reciprocità della comunicazione e nello stesso modo non dà la possibilità di gestire in maniera autonoma la propria persona: sono le azioni e le menti degli individui che determinano questo, come l’etica hacker ha permesso di lottare per la collettivizzazione dei mezzi comunicativi in un territorio privatizzato dalle multinazionali.
Esistono diversi modi di utilizzare Internet: essere un angelo senza identità che tocca in silenzio le interfacce grafiche altrui passandovi senza lasciare tracce oppure sfruttare le possibilità realmente interattive che la Rete offre, imprimendovi orme personalizzate ben visibili e che potranno essere contaminate dai successivi passanti.
Nel primo caso la Rete non sarà poi molto differente dagli altri media, se non per la caratteristica (comunque degna di nota) di presentare innumerevole materiale fruibile a seconda di bisogni specifici ed esigenze personali; sarà uno sterminato archivio da consultare e da scaricare nei personali "cassetti". Nel secondo caso, la Rete diventerà un luogo di esperienze reali e collettive, una possibile piazza in cui scambiare le proprie opinioni, riflessioni e desideri con altra gente nomade che vuole autodeterminare così la sua identità in un terreno evanescente e farla viaggiare nei vari nodi del cyberspazio.
Chiaramente questo in Rete è possibile se verranno preservate quelle forme di scambio polifonico orizzontale che sono praticabili solo dove non c’è qualcuno (individuo, ente, azienda, Stato, ecc.) che voglia far valere le leggi di mercato e le strategie di controllo che caratterizzano tanti spazi della vita quotidiana.
In Rete esistono tanti modi per lasciare le proprie tracce, per sfruttare la performatività del digitale e mettere in scena esperienze coperformative. Attraverso queste pratiche l’individuo può lasciare i propri segnali senza necessariamente presentarsi con il proprio nome, sesso, età, indirizzo, numero di telefono, numero di carta d’identità, professione, classe sociale, appartenenza etnica, religiosa e politica.
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Internet può essere un luogo in cui sperimentare una costruzione e ricostruzione della propria identità, per il fatto che nel cyberspazio la comunicazione diventa un fare, necessita di un’azione concreta e quindi spinge chi vuole partecipare attivamente alle relazioni che vi si possono instaurare ad autodeterminare il proprio Sé e a lasciare dei chiari segnali per caratterizzare il proprio pensiero.
Questi segnali vanno dai testi scritti nelle Chat e magari associati a dei personaggi virtuali per vivere esperienze in mondi simulati (come nei MUD, Multi User Domains), alle firme digitali accompagnate da un motto personalizzante (Origin), alle faccine per esprimere le emozioni (ammiccante;-) perplesso:-| sorpreso:-o triste:-( un sorriso:-) un bacio:-* risata:-D ), ai VIRUS DIGITALI che vengono fatti viaggiare nella Rete come cartoline (sono dei VIRUS che si manifestano sottoforma di messaggi anonimi senza destinatari fissi).
Lo scopo principale in questi casi è usare il linguaggio in maniera caratterizzante e non in modo neutrale, imprimendovi la propria personalità e magari per costruire reti di relazioni fra individui. Un modo di vivere la Rete attivamente è quello di partecipare a Chat, Mailing List, Newsgroup, Forum On Line che prendono spunto dall’attività delle BBS (le Bacheche Elettroniche collettive) che in un passato recente costituivano il principale (e unico) mezzo attraverso cui scambiare testi, immagini, dati, informazioni in maniera libera ed autogestita alimentando lo scambio e il dialogo fra gli induvudui. Chiaramente attraverso tutte queste modalità comunicative orizzontali, l’identità dell’individuo viene associata alle sue parole, ai suoni e alle immagini che appaiono sullo schermo: l’individuo è ciò che vuole esprimere in quel momento e decide consapevolemente chi vuole essere e per quanto tempo. Al proposito Tommaso Tozzi scrive: "Attualmente, con l’avvento e la sempre più larga diffusione di tecnologie mediali che permettono l’uso di ipertesti e del cyberspace nella comunicazione di massa, si pone l’evidenza di come la parola possa essere integrata in un modello plurilinguistico che fa uso contemporaneamente di immagini, suoni e sensazioni tattili.
La parola esplode per contenere altre forme linguistiche. Con essa crolla l’utilità delle convenzioni sociali che imponevano all’identità di fare riferimento in modo statico ad una parola [il nome]. Se questo discorso va inteso come una constatazione pragmatica delle conseguenze di uno sviluppo tecnologico, si può affrontare lo stesso problema da punti di vista diversi. Il problema della necessità di adottare identità multiple nella comunicazione va ricondotto a un problema etico di libertà degli individui: da una parte il diritto alla privacy (e quindi all’anonimato) e dall’altra il diritto di rendere pratica sociale ogni potenziale forma del nostro immaginario. Che al giorno d’oggi può significare tra le altre cose il diritto di avere la libertà di concretizzare la propria fantasia nella ‘realtà’ del cyberspace."
La consapevolezza nella determinazione della propria identità in Rete può dare vita ad un interessante e costruttivo terreno di confronto, in cui gli individui possono provare a cimentarsi con ruoli e personalità che non potranno mai sperimentare nella vita reale. In questo modo l’espressività e la capacità comunicativa degli individui può anche essere acuita, contrariamente a chi sostiene che il mondo virtuale può provocare un progressivo annichilimento dei navigatori. Secondo l’"antropologa del cyberspazio" Sherry Turkle assumere consapevolmente forme corporee diverse e identità virtuali autocostruite aiuta in molti casi a conoscere meglio se stessi e ad esercitare una riflessione critica sulle proprie modalità di costruzione di relazioni interpersonali: "Ognuno di noi è incompleto a suo modo. L’ambiente virtuale può fornirci la sicurezza necessaria per poter manifestare quel che ci manca, in modo da iniziare ad accettarci così come siamo.
Il virtuale non deve necessariamente rappresentare una prigione. Può essere la zattera, la scala, lo spazio transitorio, la moratoria, situazioni che vanno abbandonate dopo aver raggiunto una maggiore libertà. Non dobbiamo rifiutare la nostra vita sullo schermo, ma neppure è il caso di considerarla come una vita alternativa. Possiamo usarlo come uno spazio per la crescita. Avendo messo letteralmente per iscritto l’esistenza delle nostra personalità online, diventiamo molto più consapevoli di quel che stiamo proiettando nella vita quotidiana. Come l’antropologo che torna a casa dopo l’immersione in un’altra cultura, chi viaggia nel virtuale può tornare nel mondo reale meglio attrezzato per capirne gli artifici."
Il mondo virtuale può quindi favorire la messa in scena di personalità molto diverse da quello che si è nella vita quotidiana, oppure può aiutarci a comprendere meglio alcuni aspetti di noi stessi, come uno psicodramma. Può essere paragonabile agli esercizi di prova di Richard Schechner, in cui a partire dal lavoro sul proprio corpo si opera una riflessione interiore e sulle proprie esperienze vissute. L’anonimato fornisce quindi grande spazio per esprimere parti inesplorate della propria soggettività (chiaramente se c'è la volontà cosciente dell'individuo di farlo), favorendo la percezione di possedere un sé multiplo. L’identità infatti, pur manifestandosi diversamente fra persona e persona e quindi possedendo caratteri peculiari ed individuali, va considerata come multipla. Ogni personalità non si esaurisce in un unico aspetto, ma la sua completezza risulta dalla frammentazione, dalla coscienza di essere una pluri-identità. Per esprimere il concetto del Sé proteiforme, Sherry Turkle fa l’esempio della home page in Internet, l’interfaccia grafica che esprime visivamente quello che l’individuo è o vuole essere: "Nel Web, l’idioma per costruire l’identità di una ‘casa’ consiste nell’assemblare una ‘home page’ (una pagina-casa) di oggetti virtuali corrispondenti ai propri interessi. La home page viene realizzata componendovi oppure ‘incollandovi’ parole, immagini, suoni e indi collegandola (tramite link) ad altri siti su Internet o sul Web. Come gli agenti dell’intelligenza artificiale emergente, l’identità emerge grazie a coloro che conosciamo, dalle reciproche associazioni e connessioni. […] una casa virtuale, come quella reale, viene ammobiliata con oggetti che si comprano, si costruiscono o si ricevono in regalo. […] Se consideriamo la home page come metafora immobiliare del sé, l’ambientazione è postmoderna. Le varie stanze di stile diverso sono situate su computer sparsi in tutto il mondo. Ma, grazie agli sforzi di una singola persona, esse sono riunite a formare un tutto coerente."
Il virtuale comunque non rappresenta unicamente un provvisorio terreno di sperimentazione identitaria liberata, da abbandonare dopo l’uso, come si fa con tante merci, ma rappresenta anche un luogo in cui mettere in scena "stabilmente" ciò che siamo o vogliamo essere e può quindi essere un territorio di pratiche reali parallele alla nostra vita al di fuori del cyberspazio. Anche il virtuale può entrare a far parte della nostra quotidianità e diventare uno spazio in cui instaurare relazioni, lottare per i propri diritti, esprimere i propri pensieri e la propria creatività, partecipare a discussioni su determinati temi.
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Il Cyberfemminismo
Secondo Donna Haraway il cyberspazio e la tecnologia possono essere un mezzo di liberazione del dualismo uomo-donna che ha perpetuato l’affermarsi delle concezioni maschiliste nella cultura e nella società. "La scrittura è in primo luogo la tecnologia del cyborg, superfici incise del tardo Ventesimo secolo. La politica del cyborg è la lotta per il linguaggio, contro la comunicazione perfetta, contro il codice unico che traduce perfettamente ogni significato, dogma centrale del fallocentrismo." L’autodeterminazione di un’identità ibridata viene vista come il mezzo per sfuggire alla claustrofobia del punto di vista assoluto che, generando appartenenze rigide, ha determinato condizioni di inferiorità e di oppressione per la donna (e non solo) nella sfera del sociale. Il "meglio cyborg che Dea" di Donna Haraway vuole sottolineare l’aspetto di liberazione insito nell’approdare ad una personalità fluida, flessibile e instabile, piuttosto che ad un modello venerabile cristallizzato dalla cultura, che risulta assolutamente artificiale nel suo essere unico, valido per tutte e permanente.
Donna Haraway dà vita all’obiettivo cyberfemminista di un mondo post-genere, mettendo in discussione gli schemi di ruolo sessuale sostanzialmente dicotomici a partire dalla liberazione da tutti i dualismi che finora hanno caratterizzato la nostra cultura, come quello che contrappone il corpo alla mente, il naturale all’artificiale, l’organico al meccanico, il pubblico al privato. "Una posizione di questo tipo è al tal punto altra, da superare tutta la teoria che potrebbe basarsi su eventuali matrici naturali e insieme da riconoscere a tutte le differenze minoritarie che si sono prodotte all’interno del pensiero femminile e femminista lo statuto di esistenza, all’interno della ‘disordinata polifonia’ che caratterizza la frammentazione della società e delle identità sociali che la abitano: ‘Non c’è niente di relato all’essere femmina che colleghi naturalmente le donne fra loro. Non esiste nemmeno un vero statuto dell’essere femmina, categoria in se stessa altamente complessa e costituita attraverso la contestazione di discorsi sessuali, scientifici e di altre pratiche sociali […]. E cosa vuol dire NOI nella mia stessa retorica? Quali sono le identità a disposizione per realizzare un mito abbastanza potente da essere chiamato NOI? […] Una dolorosa frammentazione fra femministe (per non dire di quella tra donne) lungo ogni possibile linea d’errore ha reso elusivo il concetto di donna."
L’appartenenza identitaria si fa quindi fratturata, secondo un pensiero che concede legittimità a tutte le diverse manifestazioni dell’essere, senza incanalare le tante forme che la personalità umana può assumere in una struttura rigida e stigmatizzante.
Sempre Cromosoma X afferma: "Bisogna essere in grado di svincolarsi da tutte le appartenenze, soprattutto quella di sesso/genere, essendo questa la condizione necessaria per poter porre le basi di una società post-genere. Risulta chiaro allora che la messa in discussione dell’identità femminile deve implicare una crisi del sé maschile, un sé che si è storicamente strutturato attraverso la relazione/dominazione con l’alterità femminile. Del resto una volta portata a termine la mappatura del patrimonio genetico, il progetto genoma, nessun individuo potrà più considerarsi tale nel senso odierno del termine, di un’identità unica e irripetibile. Una tale contingenza resa possibile dalla scienza/tecnica rimette in discussione, insieme al concetto di identità, tutta l’epistemologia moderna e apre la strada a una società dove non solo il genere non ha più senso, ma neanche un’identità che non sia frammentata e in continua evoluzione."
Anche in questo caso l’autodeterminazione identitaria si fa pratica reale ed oppositiva e strumento di lotta per tutelare certi diritti, che dal particolarismo della condizione femminile, arrivano ad ipotizzare l’azione all’interno della più generale società e cultura contemporanea. Il cyberfemminismo si fa quindi territorio di azione radicale ed estrema, che dall’ibridazione dei canoni stereotipati che la nostra cultura e società impone, giunge a concepire il nuovo.
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Autodeterminare la propria identità attraverso la performatività delle nuove tecnologie
Queste pratiche reali in Rete sfruttano quindi la caratteristica performativa delle nuove tecnologie digitali. Gli ipertesti del Cyberspazio permettono di ri-versare il nostro corpo e la nostra mente nelle trame del digitale, lasciando delle impronte personalizzate all’interno dei mondi virtuali. La nostra identità viaggia nella Rete e si fa nomade nel suo essere polifonica: attraverso i vari link si compone di tante voci fluttuanti e viene percepita visivamente in seguito al nostro gesto, che la anima nel momento in cui ci si interfaccia con essa clickando nelle trame del digitale. Il linguaggio diventa una materia su cui esercitare la propria individualità, facendovi irrompere la soggettività e la creatività. Il segno iconico rappresenta la protesi virtuale dei nostri pensieri e permette il dispiegarsi di relazioni interpersonali che si sviluppano come un reticolo in tutta la Rete.
L’individuo attraverso il digitale manipola i significati e i codici comunicativi e mette in scena delle performance individuali che possono dare origine a azioni collettive: posizionare e riposizionare se stessi nei circuiti virtuali significa coinvolgere altri individui in un gioco coperformativo inscenato per effettuare collettivamente la costruzione del senso.
Attraverso la messa in scena del nostro corpo-mente nelle derive dei link ipertestuali, il nostro io, fattosi molteplice, sperimenta una modalità comunicativa che lo porta ad agire direttamente nei codici del comunicare, che lo investe della capacità di costruire attivamente il proprio linguaggio, operando una manipolazione nella "fisicità" del comunicare stesso.
"L’essere in Rete, il comunicare con i new media si declineranno - già si declinano - come fluttuazione fra opposte tensioni, fra chiusura e apertura, fra stabilità e dinamismo, fra identità e alterità…in un processo di continua ridefinizione che trova nella comunicazione/performance il proprio strumento e la propria condizione d’essere, poiché in essa vede la matrice della propria contingenza, e del proprio carattere relazionale ed estemporaneo."
Performance quindi come pratica reale di comunicazione, come mezzo per esprimere creativamente se stessi mettendo in scena le diverse componenti della propria personalità, rendendo pubblico e ben visibile il proprio pensiero.
Performance come sperimentazione identitaria mediante cui autodeterminare la propria identità secondo la reale percezione del proprio Sé.
Performance come pratica di costruzione di spazi di discorso attraverso cui abbattere le tradizionali differenze fra emittente e ricevente, fra attore e spettatore e quindi come mezzo per instaurare reti di relazioni orizzontali e interattive.
Performance come pratica oppositiva per lottare per i diritti individuali e collettivi, autogestendo le proprie zone di dialogo al fine di tutelare la libertà comunicativa.
Performance come riflessione critica sul reale a partire dalla costruzione-decostruzione dei simboli e dei canoni socioculturali attuali.
Performance come zona liberata, in cui giocare con le nostre appartenenze sociali e con le nostre cristallizzazioni culturali, creando il nuovo dalle associazioni inusuali.
Performance come territorio di ibridazione in cui vedere noi stessi con gli occhi dell’Altro e l’Altro attraverso noi stessi.
Ed è nell’arte digitale interattiva che si trova lo scenario in cui la performance può manifestarsi come danza liberata, dando espressione a tutti i suoi caleidoscopici aspetti.
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