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UNA CONFERENZA IN AUSTRIA E UN'INTERVISTA A WILLIAM GIBSON by Decoder
Tratto da DECODER #7

Il termine cyberpunk non è stata un'invenzione del particolare gruppo di scrittori che con tale termine venivano definiti.
Cyberpunk, come "Hippy", era in origine un termine essenzialmente giornalistico. Un tentativo di descrivere certi fenomeni di letteratura e paraletteratura associati con gli anni Ottanta. Come qualunque neologismo giornalistico, o il miglior slogan creato da un pubblicitario, all'inizio era vuoto in attesa di ricevere significato. Oggi può significare molte cose. Nel "Wall Street Journal", ad esempio potrebbe significare le attività degli hackers. Qualcuno mi ha anche detto che significa un movimento politico italiano (eh, eh, eh, N.d.R.). Ho precedentemente espresso frequenti dubbi a proposito del fatto che il cyberpunk esista, o sia almeno esistito, come movimento letterario formale.
Cercherò di fare un tentativo di definizione letteraria, ma ogni atto di definizione deve in qualche modo essere auto-referenziale. Per cui debbo dirvi che sono nato nel 1948, durante quella che potrebbe essere descritta come l'ultima alba della primissima era dell'informazione. Il che vuol dire che inconsciamente faccio riferimento ad ambienti in cui la TV era largamente sconosciuta. La mia adolescenza era fortemente colorata da un rapido ottimismo tecnologico e da un costante e concomitante sottofondo di paranoia e terrore tecnologico. I due poli dell'immaginario di massa in quei giorni erano una luccicante Futuropolis, tirata con Cera Grey, e lo spettro del disastro nucleare. E diversi personaggi autoritari continuavano a dirmi che l'atomo avrebbe cambiato ogni cosa. Più tardi mi fu detta la stessa cosa dell'LSD. Mi sembrava, in quanto bambino, di vivere in realtà in uno scenario di fantascienza di qualche genere. Penso di aver preso molto naturalmente il linguaggio e le metafore della fantascienza di quel periodo. Ora, in realtà, mi sembra che quel rapporto tra tecnologia e fantascienza che noi percepivamo fosse solo una forzatura da parte degli scrittori. Sembrava che il futuro stesse per arrivare servito su un piatto d'argento, molto probabilmente di design scandinavo, per essere immediatamente e voracemente consumato nell'applicazione a qualsiasi scopo i produttori lo intendessero fatto. Adesso, negli anni Novanta, essendo arrivati nel futuro, attraverso la lentissima macchina del tempo rappresentata dal corpo umano, mi si dice che ogni cosa sta per cambiare e forse è vero. Ma il piatto d'argento degli anni Cinquanta è diventato un flusso continuo di pacchetti sotto vuoto spinto. Ho notato che non sempre impieghiamo le nuove tecnologie agli scopi dai quali erano state inizialmente concepite per i loro inventori: per esempio mi arrivano voci insistenti che il cartello Columbia Metaline impieghi sistemi esperti nella programmazione del flusso globale dei loro prodotti. Evidentemente la "strada" trova i propri usi per le cose. La mia fantascienza, come tant'altra cosiddetta cyberpunk, mi sembra meno interessata ad anticipare nuove tecnologie che a considerare i vari usi che lo stupendo e confusionario animale umano può trovare per queste. E se potessi darvi un consiglio questo sarebbe: se vi si presentasse una nuova tecnologia dovreste chiedervi cosa potrebbe farne un poliziotto, un politico o un criminale. Inoltre quando incontri un poliziotto, un politico o un criminale con un nuovo pezzo di tecnologia chiediti che cosa faresti tu con questo. E quando ti paragonano a quei visionari che predicono i cambiamenti che una certa tecnologia porterà, ricordati delle predizioni degli antichi profeti. Colui che ha inventato la televisione si sarebbe potuto immaginare MTV?
Questo tipo di domande sibilline risiedono al centro dell'attitudine cyberpunk, se mai è esistita. In conclusione penso che fosse C.P. Snow che fece la prima distinzione fra due culture nella civiltà occidentale, parlando di dicotomia tra scienza e arte o, in riferimento a quello che voglio dire, tra arte e tecnologia: egli disse che, in effetti, molto pochi tra di noi sono pratici di entrambe, dichiarazione che penso sia ancora valida. Comunque, alla fine del ventesimo secolo, ci è diventata familiare l'ipotetica figura dell'artista "barra" ("/") scienziato. Ma se si ascoltano con più attenzione gli scienziati/artisti, si può spesso avvertire che parlano, da momento a momento, da una parte o dall'altra della "barra". Il Cyberpunk, sia che fallisca o che riesca, che sia fallito o riuscito, mi rappresenta nel senso che è un tentativo di parlare dalla "barra"; simultaneamente nell'una o nell'altra lingua. Penso che sia difficile, e delle volte impossibile, ma è quantomeno una cosa che vale la pena di tentare.

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L'INTERVISTA

... una dichiarazione sul futuro dell'umanità?

Non ne faccio mai. È Bruce che se ne occupa in un certo senso. Bruce è il braccio polemico del cyberpunk americano e io sono più l'aspetto del "recording angel". Io vado solo in giro e osservo. La cosa che mi è più chiara, sul finire del secolo è che mi sembra siamo realmente entrati in un periodo di turbolenza dal quale, se la "teoria del Chaos" è esatta, come pare, emergerà un nuovo ordine. Ma dubito che uno possa anticipare la natura del nuovo ordine deducendolo da quello attuale, apparente natura del caos. La gente dirà "L'Europa dell'Est sta facendo questo", così che sarà parte del nuovo ordine, ma io penso che la cosa interessante è che quando passiamo dall'altra parte non troviamo nessuna Europa dell'Est. Abbiamo iniziato una nuova partita, è qualcosa che non possiamo prevedere.

È vero che hai disertato dall'esercito degli USA?

In un certo senso. Non voglio però avere la responsabilità morale di rivendicare la diserzione perché non sono mai stato coscritto, e questo perché qualche maggiore sapeva che ero in Canada e quindi qualche burocrate deve aver pensato: "Non vale neanche la pena di spedirgli la cartolina, è già là!" Siccome non mi hanno mai spedito niente essere disertore non mi è costato nulla, non ho dovuto neanche prendere la difficile decisione di dire "Vado e non tornerò". Sono semplicemente andato là a fumare hashish, ad ascoltare musica, ignorando tutto. Pochi anni più tardi il sistema era demolito e io non avevo mai avuto la chiamata. Se fossi stato chiamato però non sarei andato. In realtà, alcuni dei miei migliori amici in quel periodo erano tedeschi dell'Est che si nascondevano in Canada dopo la diserzione. Da come l'ho capita, il loro sistema gli permetteva... se stavi via per un paio di anni poi potevi tornare.

Dal Canada arrivano interessanti teorie sulla comunicazione, come quelle di McLuhan, oppure in campo cinematografico quelle di Cronenberg...

Non penso che il mondo anglosassone canadese sia particolarmente stimolante. In realtà il Canada è piacevole.

Perché i tuoi personaggi sono così soli o agiscono in modo solitario?

Inizialmente perché avevo preso a prestito, per Neuromante, molte cose dalla tradizione filmica: i western di Sergio Leone, per esempio Lonely Man. Per cui vi è una formula western che ho mutuato come un'armatura, una sorta di supporto architettonico per il resto del materiale e mentre usavo questo antieroe cominciavo ad interessarmi a ciò che poteva realmente significare e che poi è seguito attraverso i primi tre libri. Ho sempre pensato all'eroe di Count Zero (in Italia pubblicato come Giù nel Cyberspazio, N.d.T.) come un cowboy alla Clint Eastwood, che ti prepara a certe aspettative sul suo agire, ha questa enorme pistola ed è estremamente cupo. Prova a fotterlo e sei sicuro che qualcosa succederà. Quello che succede è, quando finalmente uccide qualcuno, che spara alla persona sbagliata, e questo è tutto. Ti dà fastidio, più o meno, perché è un soddisfatto padre di famiglia. Ha un figlio e una figlia e abita in campagna. Ho preso il personaggio durante la stesura del libro e poi ho risistemato i pezzi. Qualcosa che non mi aspettavo di fare quando ho iniziato il libro. Non so, non sono particolarmente solitario. Penso che, ovviamente, c'è molta solitudine nella società urbana-industriale e che sembra veramente pervasiva. Per cui di cos'altro avrei dovuto scrivere? É difficile scrivere di personaggi felici.

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Qualcosa a proposito dello stile poiché in Italia i tuoi libri sono tradotti molto male...

Tutti mi dicono la stessa cosa ovunque, eccetto forse in Giappone. Le traduzioni giapponesi sono apparentemente pezzi di arte radicale di per sé, anche se non conosco questa lingua. Penso che stilisticamente una traduzione deve essere molto difficile, perché parte della mia scelta stilistica ha che fare con l'uso con venti o trenta diversi tipi di slang, slang inglese e americano che sono stati risistemati interamente al di fuori del loro contesto storico. La versione inglese ti fornisce diversi livelli di significato, specifici, tratti da piccoli frammenti di testo. Per un traduttore avere a che fare con questa roba dev'essere particolarmente difficile. Ad esempio, in Neuromante, è molto importante che alcuni dei personaggi parlino in uno stile rastafariano dell'inglese, una variante futuristica del dialetto rastafariano, così che è impossibile da tradurre letteralmente. So che nell'edizione tedesca i personaggi rastafariani parlano una specie di slang hippy degli anni Sessanta, che è la cosa più simile che il traduttore è riuscito a trovare. È nella natura del linguaggio. La traduzione non è mai possibile letteralmente, è solo un'approssimazione.

Il tuo stile è frutto di uno studio particolare o è un tuo modo naturale di esprimerti?

No... Si è totalmente sviluppato come effetto collaterale del processo di apprendimento della scrittura. Non ero cosciente di essere sulla strada di sviluppare uno stile se non dopo averlo fatto. È una cosa piuttosto pericolosa realizzare che di fatto sei diventato "caposcuola di uno stile", è mortale. Una volta che sei cosciente di te stesso come di un maestro di stile stai diventando un classico. E poi dove sarai? Il libro che ho scritto con Bruce Sterling, The Difference Engine, è stato scritto con un'approssimazione del più prettamente formale inglese vittoriano.

Lo stile di Dickens?

Proprio così.Ci sono dei veri e propri pezzi tratti da Dickens che abbiamo "campionato" e alterato, e molti altre piccole campionature dal resto della letteratura vittoriana. Per me è stata una rinfrescante fuga dall'architettura dello stile che avevo elaborato nei primi tre libri. Il prossimo libro che scriverò tutto da solo... sarà interessante. Temo che lo stile sarà ancora una volta diverso. Tu canti con la stessa voce, ma ci sono modi diversi di cantare.

Perché hai proprio scelto il periodo vittoriano per ambientarvi la storia?

Avevamo avuto un dialogo sulla natura della società industriale e della sua rivoluzione che era durato anni, e a un certo punto abbiamo capito che avevamo il materiale per una storia; un concetto che potevamo sfruttare. Per cui non è stata una scelta cosciente, ma piuttosto tener conto del materiale disponibile, che è sempre stato un po' il mio metodo. In Count Zero la macchina che ricicla i rifiuti in sculture è una metafora cosciente di come i miei libri prendano vita. Li vedo come collage di cose disponibili che arrivano a caso. Quando iniziai il libro con Bruce, fu necessario cercare materiale vittoriano. Ne raccogliemmo parecchio, lo esaminammo e dopo aver trovato i pezzi che andavano bene li mettemmo insieme. Almeno è un libro più cosciente. Negli USA non c'è molto materiale disponibile da esaminare sulla realtà del XVIII e XIX secolo, mentre in Europa molto di più. Così abbiamo fatto coscientemente la scelta di andare in biblioteca e di portarci tutta quella roba a casa.

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Ti aspettavi un tale feed-back dai movimenti?

No, ma è stato molto gratificante. Però sotto sotto parzialmente sì; era quello che speravo di ottenere, perchè non pensavo che quello che stavo facendo avesse un qualche potenziale commerciale. Un mio sogno era che Neuromante diventasse un cult book in Inghilterra, o piuttosto, in Francia. Sarebbe gratificante che ci fosse un gruppetto di persone che pensasse: "Proprio bello!". Negli USA, mi aspettavo che venisse ignorato, ma dopo la pubblicazione, notai, con mia grande gioia, che, molte delle risposte che ricevevo, provenivano da differenti parti della "comunità" artistica americana. Veniva dalla gente che ascolta rock. E dopo Count Zero, una cosa che mi ha fatto molto piacere è stato che questo feed-back positivo proveniva dai neri americani, un sacco di ragazzi neri che dicevano: "È proprio come ci sentiamo in questa epoca". Questa cosa mi è proprio piaciuta e c'è della gente come i Living Colors a cui Count Zero è piaciuto molto.

Hai avuto relazioni personali prima di scrivere i libri con gente di strada?

Sì, quando andai a Toronto avevo 19 anni e quella era la "Summer of Love" e tutto era in fermento, ma poi per 4 o 5 anni non ho fatto nulla e vivevo in giro con i miei amici. Poi sono cresciuti e sono diventati avvocati e commercialisti, mentre io me ne stavo ancora seduto là a pensare a cosa stavo facendo e sono finito a fare lo scrittore, ma più per pigrizia che per altro. Non avrei mai pensato di potermi mantenere, pensavo di farcela invece lavorando in un negozio di dischi di seconda mano all'università o qualcos'altro, come un sacco di altra gente che conoscevo.

Ora che hai a che fare con grosse case editrici e case cinematografiche, cosa ne pensi della questione comunicazione per quel che ti riguarda?

È molto difficile riuscire a fare qualcosa oggigiorno, a volte succede che un editore paghi un agente editoriale che vende libri con un qualche potenziale, soprattutto perchè questi vendono e non per il potenziale che potrebbero avere. L'editoria è relativamente sottocapitalizzata, è molto poco il denaro investito nell'editoria. Molte case editrici sono di proprietà di grosse multinazionali, le quali non guadagnano molto dall'editoria però non mollano. In campo cinematografico o televisivo è ancora più difficile fare qualcosa di originale perchè c'è troppa gente di mezzo tra l'artista e il pubblico. Centinaia di persone che insistono tutte nell'averne una parte. Il risultato è una sorta di prodotto omogeneo e inoffensivo che tutti ci becchiamo, a volte anche fantasie spudoratamente fasciste, qualsiasi cosa essi pensino che possa vendere. Occasionalmente ci scappa anche qualcosa di originale che subito cercano però di replicare in 15 imitazioni. Per ciò che invece ho visto di Hollywood non c'è proprio niente da fare: se ne fai parte qualsiasi cosa tu possa fare sarà ridotta inevitabilmente alla forma più stupida possibile.

Com'è possibile per un autore mantenere la propria identità in questa relazione?

Penso che nell'editoria sia molto più facile rispetto a qualsiasi altro mass-media, mentre i musicisti pop sono molto più limitati di coloro che lavorano nel cinema. A Hollywood gli sceneggiatori sono una categoria che guadagna appena più degli altri, ma non sono veramente parte del processo esecutivo, anche se hanno un sindacato molto forte. Anche i registi e i produttori hanno una specie di sindacato, ma quello di quest'ultimi mi sembra che sia uno strumento per difendere gli interessi delle multinazionali. Uno sceneggiatore può essere licenziato e rimpiazzato, è come fare l'idraulico o il falegname: non si fa per arte ma per pagare l'affitto. Sarebbe interessante lavorare su dei film con persone che hanno a disposizione un sacco di soldi. C'era un progetto che avevo appena iniziato con un giovane regista sovietico di girare un film a Leningrado in tempi brevi, solo che il musicista rock sovietico che doveva fare il protagonista nel film è morto in un incidente automobilistico e abbiamo dovuto sospendere tutto. Ma artisticamente questo progetto era molto interessante perchè Rachid, il regista, disponeva paradossalmente di una libertà incredibile. Nessuno controllavo quello che faceva e finchè aveva un certo numero di rubli ha sempre fatto quello che voleva.

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