SIAMO TUTTI ARTIFICIALI: ESTETICA CYBERPUNK (?) by Giovanni Savoini
Il cyberpunk vive da più di dieci anni: da quando uscì il
Neuromante di William Gibson. Nel frattempo è cambiato e cresciuto, si è
evoluto e trasformato. E’ diventato una "vigorosa corrente che prosegue per la
sua strada" . Il cyberpunk è divenuto mainstream ; il genere è diventato filone
(così sempre Nistri).
Non è facile trovare nelle tonnellate di parole, note, fotogrammi, bytes e
pixels, un minimo comun denominatore a tutto quello che ormai viaggia sotto
questo filone.
In base a una personale suggestione e impressione, diremo che il cyberpunk è
caratterizzato dalla familiarità con l’artificiale.
"Artificiale", da intendersi in senso letterale di "fatto ad arte" da un
"artefice", cioè un "creatore", un "artista", un "autore". Che, quando volge in
negativo diventa "artificioso": manierato, ricercato forzatamente.
"Artificiale" come sinonimo di "meccanico": una "macchina" non naturale,
dunque costruita dall’uomo. In senso esteso, "artificiale" uguale "culturale",
"sociale". Invenzioni, via via sempre più ricche di conoscenza e di tecnologia,
fino a divenire impalpabili, virtuali, fino a far passare in secondo piano o
nascondere la loro componente di hardware -come capita alla Rete Internet.
Nella nostra società, ormai da millenni, pressoché tutto è artificiale, cioè
inventato, si tratti di regole di comportamento o di mezzi tecnici per vivere
tutti i giorni ... e una distinzione netta in proposito diventa spesso ardua da
fare, creando situazioni astruse.
Il cyberpunk dunque, in quanto forma culturale che manipola l’artificiale,
che vi si immerge e se ne nutre a pieno ritmo, ha compiuto lo sconfinamento dai
ranghi esclusivamente letterari, invadendo ogni possibile forma espressiva,
creando una rete di richiami e rimandi, citazioni-plagi-copiature. In
questo risiede il suo successo, la ragione della sua longevità, accompagnata da
una crescita simil-cancerogena che lo ha reso irriconoscibile da ciò che era
all’inizio. Ed anche in queste caratteristiche, troviamo pure i limiti del
cyberpunk, oggetto culturale esso stesso, che plasma altri oggetti culturali, in
una epoca che esso stesso ha suggestionato e che, preda della smania di questi
lucidi sogni letterari, si è data da fare per realizzare il mito della
comunicazione globale: il cyberpunk, segno culturale dei tempi in un’epoca
marcata dallo spaesamento, dal relativismo, da una "crisi di crescita", non sa
offrire altro che ulteriore spaesamento e disancoramento, ulteriore esposizione
senza filtri a ritmi sempre più serrati e mai interiorizzati, a quantità di
informazioni, risorse, opportunità, alternative, realtà sempre meno gestibili, a
velocità sempre crescenti.
Tant’è: la famliarità con l’artificiale rimane sempre al centro del vortice,
è l’occhio del ciclone. E se ancora questa familiarità con l’artificiale non sa
produrre -o non ha saputo finora produrre- un’etica al passo con i tempi, se non
altro ha prodotto e produce un’estetica, che, per sua natura, manda
continuamente in giro per il mondo segnali visibli, ostentabili, riconoscibili.
Estetica anch’essa mutevole, comunque.
In ogni caso, riscontriamo in questa estetica almeno i due estremi, che, pur
nella mutevolezza passeggera dei particolari, rimangono abbastanza
identificabili col passare del tempo: l’estetica cyberpunk è estremamente
bipolare e duale e esalta sempre più la contrapposizione tra il bello-bellissimo
contro il brutto-bruttissimo. Per personificare, anche a prezzo della
banalizzazione: Superman contro Frankenstein.
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Una piccola premessa: molti trattati sociologici ed economici -da noi
ricordati in passato- accennano alla cosiddetta "società duale": una società
dove il divario tra i ricchi-ricchissimi e i poveri-poverissimi si allarga
sempre più -e in mezzo, pressoché nulla. Uno scenario spinto, dominato da
svettanti grattacieli scintillanti, nei cui ambienti si vive in maniera opulenta
e brutalmente autosufficiente, sullo sfondo di sterminate baraccopoli
formicolanti di creature quasi sub-umane. Uno scenario estremo, ma che già
vediamo radicato e reale nelle nostre isole occidentali di benessere, circondate
da flutti di umanità disperata (pensate solo agli albanesi dell’ultima ora,
attratti dall’immagine che di noi stessi diamo in televisione come falene dalla
lampada).
La contrapposizione etico-morale-economica tra ricchi-ricchissimi vs
poveri-poverissimi si sovrappone a tratti con la contrapposizione estetica
belli-bellissimi vs brutti-bruttissimi. Non sempre si sovrappone però, perchè
oltre alla bruttezza causata da una vita precaria e rischiosa, malamente
supportata da cure sempre più tecnologiche, oltre alla bellezza baciata da una
vita trascorsa lontano da ogni indigenza e curata dalla medicina, vi sono anche
bellezze artefatte, artificiali-artificiose, che violentano il nostro
senso e i nostri canoni estetici e che sono tanto più orride quanto più ricche
-perché ci vogliono risorse economiche e materiali e tempo a disposizione per
praticarle e ottenerle e poi ostentarle, queste nuove bellezze/bruttezze.
Il corpo è sempre meno percepito come qualcosa di naturale, di dato come
risultante dalla roulette genetica ed immutabile dell’incrocio tra due genitori.
Il corpo si può, anzi si deve cambiare: dapprima si trattava di un imperativo
etico e usava metodi percepiti come "naturali": le medicine, la prevenzione
sanitaria (che producono generazioni sempre più forti, alte, longeve, sane); poi
gli interventi chirurgici ... e qui si ha la svolta ... prima quelli
indispensabili, ed anche drammatici, salvavita, poi quelli sempre più accessori,
quasi voluttuari. Ed ancora, le manipolazioni genetiche, per correggere ed
eliminare difetti e malformazioni: anche qui, dapprima solo i caratteri dannosi
e mortali, poi la possibilità, sempre più realistica, di mutare anche gli
aspetti esteriori. Nell’elenco ci vanno anche i cloni, gli animali e le piante
transgeniche, tutte le possibili variazioni tecnomediche sul tema "concepimento
e gravidanza". Il corpo è sempre più visto come uno strumento, e come tale
modificabile a piacimento fin nei suoi aspetti più marginali e semplicemente
esteriori.
Sia chiaro: qui è bandito ogni moralismo bacchettone, ogni allarmismo da fine
millennio. Anche perché molte delle manipolazioni di cui qui si parla -e che
pure non è il caso di illustrare in dettaglio, tutti sappiamo quali sono- sono
davvero positive.
Il fatto è che la concezione del corpo come strumento e la familiarità con
l’artificiale, sfociano molto presto nell’abbattimento dei confini tra organico
e inorganico: il corpo come ricettacolo di "pezzi" estranei, clonati o
trapiantati o costruiti. Il corpo bionico, il cyborg, carico di gadget e
optional elettronici e meccanici, di prese, di spine, di interfacce, di
interruttori, come i cybercowboy gibsoniani.
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Questa operazione di costruzione corporea ha due estremi, entrambi
smaccatamente artificiali. Da una parte ci sono corpi che rispondono a canoni di
bellezza fisica modellata in pose plastiche, scultoree ma innaturali, frutto di
steroidi e silicone, ginnastiche estreme e regimi di vita rigorosissimi. Sono le
bellezze ginniche stile spiaggia californiana, stile yuppie o tycoon rampanti.
Tutti abbronzati, profumati, levigati. Tutti con muscoli ben compatti, frutto di
ore di palestra e chili di pasticche. Tutti come cover girl e fotomodelli:
bellezze platinate e bamboleggianti (sia nella versione "maschile" dalla
mascella volitiva e il naso dritto e i muscoli scoppianti, sia nella versione
"femminile" tutta curve ipertoniche e/o siliconate o liposucchiate). Queste
bellezze, alla cui base si possono trovare probabilmente idee eugenetiche e
salutistiche non prive di risvolti positivi sortiscono l’effetto
dell’annullamento della individualità: il canone di bellezza è UNO SOLO e tanto
più si è giudicati belli (attraenti) quanto più il proprio corpo "ricostruito"
modellando sulla carne combacia perfettamente al modello, come nelle operazioni
di matching al computer. L’effetto di appiattimento, banalizzazione e
omologazione è fin troppo ovvio, prevedibile e scontato. La bellezza si riduce a
una questione, quasi, di "aereodinamicità", di coefficienti numerici. Viene
bandita ogni originalità fisica individuale che, pur rientrando senz’altro nel
"normotipo" viene ritenuta come aberrante perché troppo diversa dal modello
imperante. In questo modo il fascino, che sorge come una rivelazione inaspettata
da un particolare unico e individuale, è dato per morto.
All’altro estremo c’è quella che per semplificare abbiamo chiamato il
brutto-bruttissimo -ma che tale è solo ai nostri occhi "comuni", che così non
appare senz’altro agli occhi dei suoi cultori; e che probabilmente in futuro
almeno in parte potrà piacere anche a noi.
Per chiarire meglio a cosa stiamo pensando, visto che oltre tutto questa
seconda categoria estrema ci sembra sicuramente più interessante -per gli esiti
se non per le implicazioni manipolatorie, che seguono la stessa idea-guida del
bello-bellissimo- ricorreremo ad alcuni esempi.
Cominciamo con Orlan, che, in riferimento al nostro discorso, è un
collegamento tra i due estremi. Orlan è la capostipite dei cosiddetti "performer
post-human", o post-organici, che hanno fatto del proprio corpo il campo delle
operazioni (chirurgiche) artistiche. Orlan si sottopone a una serie di
operazioni di chirurgia estetica, sempre filmate e trasmesse ad un pubblico, in
diretta o in differita, comunque esibite alla vista altrui: il suo scopo ultimo
è una totale, radicale trasformazione, l’incarnazione di un archetipo di
bellezza femminile del futuro ("un autoritratto per il XXI secolo" realizzato
miscelando al computer i vari modelli di Venere, Madonne, Monna Lisa, Psiche e
quant’ altro sia passato attraverso i pennelli della pittura occidentale dal
‘400 in poi). Dunque è un esempio estremo di bello-bellissimo così come lo
concepisce la familiarità con l’artificiale. Orlan va oltre i rappresentanti dei
belli-bellissimi, che tutto sommato possono sconfinare in una sia pure
smagliante "nornalità" e che comunque ambiscono a vivere e non a fare di sé
opera artistica. A differenza di Orlan, che concepisce il proprio intenso
lavorìo da cavia come arte politica femminista (?), critica dell’immaginario
maschile, rivelazione dell’infinita manipolabilità della carne, ironia
sull’identità inesistente, riedizione di un tardo romanticismo dove arte e vita
si identificano. Tutto questo apparato di livelli di lettura, non sempre
interessanti o originali, genera una specie di reliquiario di foto, video,
brandelli di pelle e minutaglie di carne sotto resina.
Un altro performer, Marcel Lì Antunez Roca, offre se stesso, la sua carne e
la sua epidermide, alle torture e alle manipolazioni del pubblico. L’artista
spagnolo ha creato una terribile macchina del dolore e del piacere che veste il
suo corpo. Attraverso piccoli pistoncini, ganci, tamponi, sotto la
sollecitazione del pubblico che guida le operazioni da un computer, la macchina
gli allarga le narici fin quasi a strappargliele, gli spinge orribilmente i
pettorali deformandoglieli, lo costringe ad allargare la bocca e sembra sempre
sul punto di lacerarla ... e così via. Roca mette in scena un teatro della
crudeltà. Come tutte le macchine sadomaso, la sua è una metafora del potere,
nella forma contemporanea, che non si sporca le mani, è asettico, matematico,
logico: il pubblico che decide come e se torturare la vittima, è al riparo dal
coinvolgimento emotivo dietro lo schermo di un computer, come fosse un
videogioco.
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Stelarc, cipriota di nascita, australiano di adozione, è diventato uno strano
connubio tra uomo e robot: si è innestato una protesi tecnologica
sull’avambraccio, una terza mano di acciaio e micro-chips, dotata di un vago
senso tattile, che ripete perfettamente i movimenti della seconda mano, ma che
può muoversi anche automaticamente. Stelarc si fa cavia che sperimenta
ingordamente su di sé nuove tecnologie, ingoia piccoli robot che gli scrutano
gli intestini o si potenzia la vista con "occhi laser". A quanto pare, di fronte
a questi tre performer, la borghesia che si intende d’arte guarda e apprezza
questi spettacoli concepiti per stupirla -e compra perfino (!).
Non è difficile immaginare in prospettiva questi stessi borghesi - i loro
figli, o i figli di quelli che invece si definiscono "di sinistra" o
"progressisti", ma anche quelli "di destra", qualunque significato si voglia
dare a queste vacue etichette - andare a spasso per le vie cittadine ostentando
orgogliosi una terza mano bionica, simile a quella di Stelarc, oppure occhi come
teleobbiettivi fotografici, o prese scart sottocutanee, magari dietro il collo o
chissà quali altri oggetti artificiali dissimulati sottopelle nella gabbia
toracica o nelle ossa lunghe delle gambe - per imitare gli eroi dei cyberspazio
cinematografico e forse anche letterario. Se si vuole, si può in questo caso
ricorrere alla nozione di "esotismo": "L’esotismo è tutto ciò che è altro,
significa aprirsi all’estraneità dell’Altro e sentire se stessi, tra gli altri,
rivestiti di un’estraneità inquietante" (Victor Segalen).
Il corpo viene visto qui come terra di frontiera della scienza, ossessione
dei mass media, protagonista assoluto dell’immaginario collettivo. Questi
artisti, con performances in crescendo di ripugnanza, ci gettano in faccia i
sogni e gli incubi che sono già tra noi -e in questo sono sommamente
cyberpunk. Recepiscono con lucida follia aberrante ciò che noi solo
oscuramente temiamo -o desideriamo- e che ci viene presentato in modi
addomesticati e tranquillizzanti dai canali ufficiali. Colgono della nostra
epoca la accelerazione tecnologica vertiginosa, tale da prefigurare un vero e
proprio salto nella evoluzione della specie ad opera delle biotecnologie e
dell’ingegneria genetica: evoluzione che non sarà più frutto di millenni di
faticose, impercettibili mutazioni alla cieca, guidate solo dalla selezione
naturale, ma risultato progettato di pochi anni di lavoro scientifico e
tecnologico. L’evoluzione subirebbe cioè una discontinuità (concetto di
derivazione matematica, spiegabile all’ingrosso come il punto in cui,
relativamente a un fenomeno, cessano bruscamente di valere le regole valide fino
ad allora, e ne subentrano altre totalmente diverse): dunque, non più le regole
della selezione, ma le regole della scienza (o del mercato, o dell’etica, o del
bisogno, o dell’avventura o, ugualmente, dell’ambiente, ma mediate da fattori
sociali umani, "artificiali"). Lasciamoci ancora una volta suggestionare dalle
parole di Segalen (che pure possono apparire sorpassate e ingenue): "L’Esotismo
è [...] l’acuta ed immediata percezione di un’eterna incomprensibilità". [...] è
... la diversità che lo attira : fiutare dappertutto il Diverso e
riflettere il mondo della distinzione. [...] il dominio è del Diverso e ...
"il mondo è discontinuo". Semplici coincidenze lessicali, forse, semplici
casuali assonanze, che significano cose diverse nei loro contesti oggettivamente
inconcliabili ... ma la suggestione intrigante della coincidenza ci legittima
comunque ad avvicinare due pensieri lontani, per creare un cortocircuito
sfizioso nel circolo dei pensieri.
E con questo procedimento non facciamo altro che scrittura cyberpunk,
scrittura cui è familiare il costrutto artificiale, essa stessa costrutto
artificiale, che esercita e su cui si esercita il sex appeal dell’inorganico del
"pensiero poroso" (concetto che riecheggia il principio ologrammatico di Edgar
Morin) che procede per estensione e non per esclusione, che sconfina sempre in
qualcos’altro, che non sta dentro limiti metodologici sicuri e diventa
sempre qualcos’altro : esso è anche letteratura, anche teoria della
società, anche storia delle idee, anche sessuologia, anche filosofia.
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Nella concezione estetica del sex appeal dell’inorganico la "cosa che sente"
è porosa: il sentire della cosa è neutro e impersonale, si protrae
indefinitamente, non ha orgasmo, culmine, né crescendo o diminuendo, ma una
eterna sospensione sempre uguale a se stessa. Il sex appeal dell’inorganico e la
sessualià neutra che ne è parte si regge sulla tendenza a stabilire e a
mantenere stati di equilibrio non immobili ma risultato di rapporti incessanti
di feedback, retroazione, autoregolazione. Equilibri dinamici tra infinte entità
interattive che correggono incessantemente gli scarti che porterebbero al
collasso, cioè all’esplosione orgasmica. La vittoria è dunque un processo di
adattamento ... e la nostra epoca non è forse così tanto bisognosa di
adattamento? Nel mondo delle cose che sentono -cioè proprio noi, il cui corpo ha
perso ogni traccia sia di animalità che di inviolabilità divina- la riproduzione
è separata dalla generazione : essa può essere pensata piuttosto come
replica, ingegneria genetica, clonazione, (ri)costruzione, affastellamento
traboccante di parti comunicanti, collezione di pezzi diversi e interrelati tra
loro, patchwork frutto di bricolage chirurgico.
Il discorso, ancora in divenire, dà vertigine: è questo l’effetto del sex
appeal dell’inorganico, che il cyberpunk, familiare e curioso nei riguardi
dell’artificiale, esplora in quanti più aspetti possibili. La cosa che sente
nella quale il cyberpunk ci trasforma, non si sazia : il suo sentire
sessuale è infinito, si estende a ogni forma di arte e di cultura con un
pansessualesimo neutro e impersonale. Il sex appeal dell’inorganico non si
arresta alla dicotomia tra maschile e femminile, ma prosegue la divisione
all’infinito. La sessualità inorganica non riesce a capire perché debbano
esistere solo due sessi, o perché debba esistere un solo tipo di essere umano,
quello naturale. Mario Perniola -il cui testo sconvolgente molto ci ha ispirato,
specie in queste ultimissime considerazioni- scrive che "la bipartizione tra
maschile e femminile ...(è) pensata come asimmetrica [...]" dal sex appeal
dell’inorganico. A questo punto un’altra intrigante casualità lessicale fa
capolino: nella sua "Estetica del Brutto" (che comunque va presa con le molle,
come vedremo), Karl Rosenkranz traccia un puntiglioso elenco delle
caratteristiche del "brutto": nomina, tra l’altro, anche l’assenza di forma, che
comprende l’amorfia, l’asimmetria (!) e la disarmonia; e "il ripugnante",
composto dal goffo, dal morto e dal vuoto, dall’orrendo, dall’insulso, dal
nauseante, dal male, dal criminoso, dallo spettrale, dal diabolico (demoniaco,
stregonesco, satanico). Il fatto è che però per Rosenkranz il brutto non è
indipendente, ma è solo una pietra di paragone del bello. Il che non ci sta
bene, visto che nel cyberpunk e nella nostra epoca questi concetti, sia pure in
modi contradditori e confusi, sono totalmente relativizzati: il bello può essere
talmente bello da apparire brutto (insignificante), il brutto può essere
ripugnante ma funzionale o comunque costituire look ... e comunque tutti e due
sono artificiali. Nella nostra epoca complessa e vorticosa, che spesso appare
stralunata e priva di qualunque riferimento, gli uomini vogliono "eccitare i
nervi ottusi" combinando "insieme l’inaudito, il disparato, il ripugnante, al
grado estremo" (ancora Rosenkranz). Questa tendenza esiste certamente nel nostro
mondo: anzi da essa in certo modo siamo partiti, ammettendo l’esistenza di una
crescende polarizzazione del bello e del brutto. Polarizzazione che ha effetti
paradossali, con i quali intendiamo concludere.
Nel nostro mondo vanno a braccetto i mass media interattivi, il cyberspazio e
la realtà virtuale (e dunque l’esaltazione della vista e dell’udito, sensi
logici e freddi), insieme con esperimenti e ‘giochi’ chirurgici col corpo (con
il coinvolgimento a volte brutale dei sensi del tatto, dell’odorato, del gusto).
Eppure -ed ecco un motivo in più per cui bello e brutto diventano relativi-
per tradizione il bello si collega al piacere attraverso la vista e/o l’udito. I
belli sono più perfetti dei brutti, dei vecchi, degli handicappati. Il cyberpunk
scardina allora questa tradizione. Il bello è un concetto sociale, il cyberpunk
potrebbe quasi operare una riforma estetica del piacere, rompere la connessione
tra il piacere ed il bello. Una protesi come quelle descritte, indicherebbe un
handicap, cioè una privazione. Ma, intesa come superamento di limiti, come
ampliamento di possibilità, come esplorazione di nuove sensazioni e possibilità
fisiche o fisico-meccaniche, essa potrebbe divenire bella, pur apparendo
ripugnante.
BIBLIOGRAFIA
- MARIO PERNIOLA -IL SEX APPEAL DELL’INORGANICO - EINAUDI, TORINO, 1994
- TERESA MACRI’ - IL CORPO POST-ORGANICO - COSTA & NOLAN, 1996
- VICTOR SEGALEN - SAGGIO SULL’ESOTISMO. UN’ESTETICA DEL DIVERSO. SAGGIO SUL
MISTERIOSO - EDIZIONI DEL CAVALIERE AZZURRO, Bologna, 1983
- KARL ROSENKRANZ - ESTETICA DEL BRUTTO - IL MULINO, BOLOGNA, 1984
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