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UN GIUDICE ARTISTA CONTRO IL COPYRIGHT
INTERVISTA A GENNARO FRANCIONE
di Maria "DaMe`" Molinari

Effettuata tramite email in aprile-maggio 2005

Il 9 aprile, nella chiesa di San Severo al Pendino a Napoli, è stato presentato, nell’ambito di “Sintesi” (il Festival delle Arti Elettroniche), “Creative Commons Italia Show Case". Tra gli invitati c’era il giudice drammaturgo Gennaro Francione, fondatore del “Movimento Utopista Antiarte”, contrario al copyright ma anche abbastanza critico nei confronti delle Creative Commons. Un uomo gentilissimo e disponibilissimo al confronto che in passato ha fatto molto parlare di sè per una sentenza anti-copyright e che di recente ha pubblicato “Hacker. I Robin Hood del Cyberspazio”, un libro che sta riscuotendo un certo successo negli ambienti hacktivisti. Un giudice anti-artista, anti-copyright e pro-hacker non poteva non attrarre la nostra attenzione. Gli abbiamo scritto, ponendogli un’infinità di domande sull’antiarte, la sentenza anti-copyright e gli hacker.

A Napoli hai parlato a lungo di anti-copyright e molto velocemente del movimento Antiarte di cui sei fondatore. Si è percepito, ma non capito del tutto, secondo me, che le due cose sono strettamente correlate. Ora che il tempo non è troppo tiranno, mi spiegheresti meglio che c’entra l’antiarte con la tua posizione anti-copyright?

Un decennio fa fondai il Movimento Antiarte (www.antiarte.it) nel cui manifesto (www.antiarte.it/newpage3.htm), al punto 7, affermavo che l'Autore, in quanto portavoce di cronache artistiche narrategli dal Mondo, aveva non più la proprietà dell'opera, ma il mero possesso (detentio) delle forme artistiche da lui create, delle quali, invece, era proprietaria l'Umanità. Detentio, termine latino, nel linguaggio giuridico significa che la proprietà della cosa è di Tizio, ma la cosa stessa è goduta da Caio, il quale ovviamente ha un diritto meno forte di Tizio anche se, in qualche modo, gode di una cosa non sua. Questo principio fu ripreso dalla DUDDA (DICHIARAZIONE UNIVERSALE DEI DIRITTI DELL'ARTE - www.antiarte.it/dudda1.htm da me ideata e firmata, l'11 novembre 2002, al Museo del Cinema di Roma da una serie di artisti, intellettuali, giuristi etc. nell'ambito di un sit-in per salvare quel museo dall'azione di aggressivi gruppi commerciali. All'art. 6 la DUDDA recita: "All'autore dell'opera è riconosciuto il diritto morale d'autore e il mero possesso a nome altrui (detentio) delle forme artistiche, con un ridotto diritto di sfruttamento commerciale, senza che chicchessia possa vantare alcuna proprietà assoluta sul prodotto artistico". Oggi, a fronte della cyberagonia del diritto d'autore, più che mai viene in luce quel progetto antiartistico di riduzione della proprietà intellettuale a mera detentio in nome dell'Umanità, con mantenimento limitato del diritto morale d'autore ma suo drastico ridimensionamento a livello di sfruttamento commerciale.

Da quali considerazioni nasce il progetto Antiarte e cosa propone come alternativa per tutelare le opere?

Le origine storiche del diritto d'autore permettono di identificare sociologicamente lo sfruttamento degli artisti i quali, col pretesto di tutelarli, vengono controllati, censurati, sfruttati, dominati, dimenticati. Il concetto integrale di proprietà artistica si originò con la censura e nacque propriamente nel Seicento, in Inghilterra, attraverso la London Company of Stationers (Corporazione dei Librai di Londra). La funzione censoria fu presto surclassata dallo sfruttamento commerciale dell'opera artistica, così che la testimonianza storica globale è chiara: il copyright fu progettato dagli editori e dai distributori per sovvenzionare se stessi, non i creativi. E' la struttura di schiacciamento ancora vigente, a Piramide. In testa vi sono le lobby sfruttatrici degli autori, le quali consentono solo a pochi di affermarsi. Il sistema si giustifica asserendo che quelli venuti alla luce sono gli artisti più bravi ma non è così. Ce ne sono sicuramente di più bravi, solo che vengono tarpate loro le ali. Le star che vediamo ogni giorno sui giornali, nelle televisioni, a cinema etc. sono gli artisti più fortunati venuti alla ribalta perché scelti dalla dea bendata (leggasi culo) o per l'aggancio sociale giusto o la tessera politica azzeccata.
Questa situazione è ben descritta nella Home page di ANTIARTE che si assume, per ribaltare il sistema, il compito gandhiano di rivoluzionare tutti gli artisti rimasti giù nella trincea, per gettarli in massa contro la piramide e farla crollare. Grazie anche alla comunicazione internettiana, il nostro progetto è di creare una Sfera in cui tutti gli artisti, senza distinzione di forti e deboli, godano della pubblicazione, comunicazione e diffusione delle loro opere, diventando i gestori della res politica (meglio antipolitica) in fatto di arte. Per fare questo è ancora necessario prima di tutto liberarsi, in paradosso, della forza economica delle proprie opere. Eliminato, riducendolo pressoché al grado zero, il valore economico dell'opera dell'artista, si assesta il primo colpo mortale al sistema copyright che proprio su quel valore si fonda per affermare e consolidare il logos del dominio.
Nella logica copyright, se non paghi non ottieni il prodotto. E se lo copi, sei un criminale. Questo è possibile perché è l'autore stesso a consentire un valore commerciale alla sua opera. Nella nuova logica anticopyright, non c'è nulla da pagare. Ergo criminale è chi fa pagare molto, tradendo l'economia umanistica del prodotto culturale-artistico pressoché al costo zero. In questa nuova prospettazione hanno da perdere - forse - gli artisti affermati e quelli che fanno dell'arte il proprio lavoro, ma noi chiediamo loro di sacrificarsi per la causa comune. Il nuovo vangelo è che, se essi sfondano o lucrano con l'arte, lo fanno a scapito della massa degli artisti che, con la rivoluzione da noi predicata, non hanno nulla da perdere ma tutto da guadagnare. Essi, gli artisti-massa - attualmente sono non esistenti, massmedialmente e commercialmente. Per non annullarsi completamente si devono trasformare in antiartisti, mettersi in trincea e combattere partendo dal depotenziamento del loro stesso inutile copyright.

Tutto questo come lo concretizzate voi di Antiarte?

Nel preambolo della DUDDA si afferma che "il primato dell'arte e della cultura sull'economia rende la tutela del diritto all'arte e al sapere dell'uomo prioritaria di fronte ad ogni altro interesse materiale ed economico". Nella Nuova Economia, dove il Sapere prevale sul momento economico come diritto primario e ineliminabile dell'Umanità, distinguiamo l'arte come contenuto dall'arte come confezione. Il contenuto d'arte e cultura dev'essere diffuso liberamente e gratuitamente. Si paga l'eventuale confezionamento ma sempre a prezzo bassissimo affinché l'arte sia realmente alla portata di tutti e soprattutto dei giovani (art. 5 DUDDA).

A Napoli mi è parso di capire che sei anche abbastanza critico nei confronti delle Creative Commons…

Meglio le creative commons che il copyright. Per questo le seguo con interesse, ma non credo che possano da sole risolvere il problema perché esse, pur operando in una funzione di sgretolamento del copyright, non azzardano il passo estremo: distruggere il copyright. Le creative commons, tutto sommato, presuppongono la proprietà intellettuale e con tutte le loro ramificazioni cavillose non affrontano il cuore della faccenda. Io, da uomo di legge, diffido dei rizomi normativi, spesso creati ad arte per fregare la gente. In Italia ci sono 300.000 leggi e vedete come (non) funzioniamo. Le alchimie codicillari delle creative commons sono sicuramente in buona fede ma non risolvono il problema a monte: quello dello sfruttamento degli artisti. Là dove le creative commons riperpetuano il sistema di avvocati, giudici, sceriffi per tutelare i diritti degli autori che comunque pretendono garanzie, sia pur nelle forme attenuate, con le creative commons non si fa che perpetuare il logos del dominio. Ecco, nel laboratorio dell'arte, l'alchimia creative commons tra la dozzina di ampolle luccicanti crea fumi che abbagliano l'artista, il quale pensa di aver trovato la pietra filosofale in ognuno di quei vetri. Ciò non è, per cui, sicuramente in buona fede, le creative commons creano un nuovo inganno. Ripetendo una metafora che ho fatto a Napoli il 9 aprile, se il copyright è la destra del diritto d'autore, le creative commons rappresentano il centro moderatamente riformista.

Molti autori temono che la propria opera possa essere alterata, stavolta, deturpata. Mi pare che questa non sia affatto una tua preoccupazione. Insomma, qual è la tua posizione da artista nei confronti del plagio, ad esempio?

Il plagio è un'azione inverosimile. La cosa che più teme un autore è che altri si appropri della sua opera integralmente. Al riguardo la migliore difesa è divulgarla. Internet è un ottimo sistema. Messa fuori l'arte è difficile che taluno s'impossessi della totalità dell'opera. Quanto alle modifiche esse, buone o cattive che siano, saranno opera del rimodellatore, ma come possono intaccare l'originario artista produttore? E' un fatto psicologico: l'artista si deve abituare a essere manipolato, rimodellato, riassemblato perché egli, consciamente o inconsciamente, ha fatto lo stesso con materiali offertigli dall'Uomo in Grande o da altro artista specifico. Una buona pratica al riguardo sarebbe scrivere per il teatro, dove l'artista deve accettare il gioco di altro artista, il regista, che in nuce ed eticamente è chiamato ad adattare il testo originario alla sua Weltanschauung, al suo stile, al suo ritmo, al suo gusto estetico etc. Concludendo, mi chiedo quale gusto abbia un vero artista a plagiarne un altro.

Sei l’autore di una sentenza anti-copyright che ti ha creato non pochi problemi e di cui si è molto discusso fuori e dentro la rete. Ci racconteresti un po’ come sono andate le cose?

Il 15 febbraio 2001, in veste di giudice del Tribunale Penale di Roma, assolsi quattro extracomunitari rei di avere violato il  copyright vendendo per strada compact disk contraffatti, motivando l'assoluzione non soltanto per essere gli imputati in stato di necessità, cioè senza mezzi di sussistenza, ma anche per l'inattualità del copyright che ormai sarebbe stato abolito dalla consuetudine di vendere e acquistare per strada compact disk, oltre che di scaricare musica da Internet (erano i tempi di Napster). La sentenza, dopo qualche giorno, creò un'interrogazione parlamentare ad opera del senatore di Alleanza Nazionale Ettore Bucciero, il quale chiedeva un'azione disciplinare contro di me  non solo per la decisione in sé, ma indirettamente per la mia attività di artista e di uomo che fa libera cultura in rete. Il vecchio governo non dava adito all'azione che veniva ripresa sotto il nuovo governo da Castelli, il quale chiedeva affermarsi l'abnormità dell'atto. S'imbatteva, invece, nel muro del CSM che mi proscioglieva riaffermando la piena libertà e indipendenza  dei giudici, sottoposti per Costituzione solo alla legge  e non  ai ministri. Le sentenze possono essere riformate solo dai giudici dell'appello non dai governi, i quali non amino i contenuti politici sottesi a certe decisioni.
Nella sostanza si trattava di un verdetto che aveva messo fuori quattro poveri diavoli, i quali per campare erano costretti a compiere un'attività ai limiti del lecito, compiuta da chi non aveva altri mezzi di sussistenza alimentare, condizione  che, nel vistoso fenomeno dell'immigrazione, è fatto notorio. Mi richiamavo allo stato di necessità (art. 54 c.p.p) che è legge, alla pari delle norme create per reprimere penalmente le violazioni del diritto d'autore. Più in generale la sentenza avanzava l'ipotesi  che la Legge del copyright sui compact disk era ed è inattuale e addirittura incostituzionale, richiamandosi ad esempio "il principio dell'arte e la scienza libere (art. 33 della Cost.) e, quindi, usufruibili da tutti, cosa non assicurata dalle attuali oligarchie produttive d'arte che impongono prezzi alti, contrari  a un'economia umanistica, con economia anzi diseducativa per i giovani spesso privi del denaro necessario per acquistare i loro prodotti preferiti e spinti, quindi, a ricorrere in rete e fuori a forme diffuse di "pirateria" riequilibratrice".
Insomma la sentenza, pur criticata dai rappresentanti delle  classe economiche dominanti in quanto scardinava il sistema di dominio fondato sul copyright,  da più parti nella rete e fuori fu accolta con grande entusiasmo. L'acclamazione venne da chi veramente conta, il popolo in nome del quale viene esercitata la giustizia. Recentemente anche altri miei colleghi, soprattutto giovani, forse perché più sensibili al cyberspazio e ai suoi problemi, si stanno muovendo con assoluzioni per stato di necessità.

Ad un certo punto, in rete, hai scoperto gli hacker e la loro cultura. Precisamente quando è accaduto? E chi ne è rimasto più colpito il giudice o l'artista? E perché?

Tutti e due per versanti diversi, anche se il giudice meno di quanto ci si possa aspettare. Mi spiego meglio.
Il pericolo del giudice è di diventare un burocrate. Pericolo tanto più forte in quanto si rivolga al passato, a ciò che decisero per quel caso un tempo altri giudici, soprattutto anziani. Per i giovani magistrati, alle prese con le nuove tecnologie internettiane ma soprattutto maggiormente a contatto col mondo come è, maggiore è la speranza che diventino dei Robin Hood, rivolti irrefragabilmente al futuro. Ho usato appositamente per questi ultimi lo stesso appellativo usato per gli hacker, proprio a dire che, quando gli hacker portano avanti la filosofia del futuro per una democratizzazione reale del mondo essi svolgono lo stesso ruolo dei giudici avanguardisti, i quali non si limitano ad applicare la legge ma a interpretarla evolutivamente.
Fanno bene, fanno male questi magistrati della res publica futura? Per me fanno bene perché il mondo si muove e la legge nel momento in cui nasce, per così dire, è cosa morta. Anche Gesù Cristo aveva detto che la legge doveva essere abbattuta se non più rispondente all'Uomo. Sì, questo perché la legge è fatta per l'Uomo e non l'Uomo per la legge. Quindi, la prima chiave per fare giustizia è tenere sempre presente l'Uomo come è e come si trasforma. Il passato è cosa morta.
Ora il mondo è quello che è, internet e diffusione di massa di sapere, cultura, arte.
La scoperta degli hacker è successiva alla mia sentenza anticopyright, i cui principi sotterranei trovavano fondamento in background nel manifesto dell'ANTIARTE risalente ai primi anni '90. Ergo l'artista Francione ha influenzato il giudice Francione. Entrambi nel fenomeno hacker trovavano solo esplicitati dei principi di innovazione già precedentemente espressi.

Di recente hai pubblicato un libro sugli hacker dal titolo Hackers. I Robin Hood del Cyberspazio che va ad aggiungersi ad altri libri dedicati allo stesso argomento scritti da italiani. Mi vengono in mente Spaghetti Hacker di Stefano Chiccarelli e Andrea Monti, Italian Crackdown di Carlo Gubitosa dell'Associazione PeaceLink, Hackers. I ribelli digitali di Paolo Mastrolilli e Haktivism. Libertà nelle maglie della rete di Tommaso Tozzi e Arturo di Corinto. Cosa ne pensi di questi libri e perché hai sentito il bisogno di scriverne un altro? In cosa differisce - se differisce - la tua opera e la tua visione del fenomeno hacker da quella degli altri autori?

Nella condivisione del sapere non potevo non attingere da quei testi che tu hai citato, tutti davvero ben scritti ed esaustivi della materia. Sono debitore a quei testi di materiali di fondo per così dire ma anche dell'humus ideativo nell'ambito del quale ho enucleato i diritti telematici: il diritto alla cooperazione, il diritto all'accesso, il diritto all'espressione, il diritto all'informazione, il diritto alla libertà di copia, il diritto alla privacy e all'anonimato. Ecco questa è la parte creativa del mio libro sugli hacker, diversificante rispetto agli altri testi: il giudice-artista è intervenuto per individuare una serie di diritti e istanze che portati avanti dalle avanguardie hacker, sono poi l'espressione delle esigenze della rete e che fonderanno le Costituzioni mondiali dell'immediato futuro, quando ad esempio la cybertecnologia espansa al massimo grado porterà al tracollo del copyright.

A proposito della sentenza anti-copyright hai parlato di “pirateria riequilibratrice” e nel tuo libro sugli hacker di "legittima difesa economica". A noi sembra che i due concetti si equivalgono. Potresti spiegarceli meglio?

L'economia umana deve sempre essere a misura d'uomo. Quando travalica diventa disumana e, allora, l'individuo pone in essere condotte per difendersi e sopravvivere. La legittima difesa è anch'essa codificata dal nostro ordinamento giuridico (art. 52 cod. pen.), come diritto naturale di difendersi e contrattaccare, quando un diritto proprio o altrui si trovi sottoposto al pericolo attuale di un'offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all'offesa. Per lo più la legittima difesa viene intesa in senso fisico. Tu mi stai per dare un pugno e io reagisco parando e rompendoti il naso. Sono scriminato perché ho reagito adeguatamente a un tuo attacco ingiusto. Ma vi sono anche diritti immateriali che possono essere attaccati, come il diritto che io ritengo primario all'arte e alla cultura, che servono all'elevazione spirituale della società e, quindi, vanno garantiti al massimo grado, dovendo essere venduti i beni relativi a bassissimo prezzo se non dati gratuitamente al popolo.
Cito la sentenza anticopyright: "L'azione degli oligopoli produttivi appare in contrasto con l'art. 41 della Cost. secondo cui l'iniziativa economica privata libera "non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana". Solo un'arte a portata di tasca di tutti i cittadini e soprattutto dei giovani può essere a livello produttivo umanitaria e sociale come richiesto dalla Costituzione, per far sì che davvero tutti possano godere dei prodotti artistici".
Insomma un cd non può costare 50 euro. Un autentico uppercut a un giovane che non sente certo solo la musica di quel cd ma vuole ascoltare quintali di musica al giorno. Chi lo vende a quel prezzo deve aspettarsi azioni di "legittima" difesa di chi ha una sola paghetta di 50 euro forse per una settimana. E insisto sul "legittima".

Parli anche di “uno spirito cyberfrancescano dell'agire comune” all'insegna del quale sarebbe nata la rete. Che intendi dire?

Il francescanesimo è una delle forme più umili del monachesimo. S. Francesco, ammalatosi, fece voto di povertà dedicandosi completamente all'amore per gli umili e per gl'infermi, rinunciando alle ricchezze paterne, raccogliendo attorno a sé i fraticelli per portare insieme nel mondo la loro azione di aiuto ai diseredati. Sono azioni che allegoricamente si adattano agli hacker, i quali si dedicano ai cyberumili, hanno in spregio le ricchezze che si possono ottenere con i loro sofisticati software, e soprattutto creano comunità di cybernauti nelle quali praticano una via santa: la condivisione del sentire e del sapere. Se gli hacker sono dei cyberfrancescani, ex converso possiamo dire che san Francesco era un Robin Hood nostrano precybernetico.

Per la prima volta ho letto il termine “ulespazio” che, da quel che so, hai coniato tu stesso e ho interpretato – correggimi se sbaglio – come lo “spazio fuori dalla rete”. Ma cos’è effettivamente questo “ulespazio”, in che relazione è con il cyberspazio e che c’entrano gli hacker?

L'ulespazio, dal greco ulè, cioè materia, è effettivamente lo spazio fuori dalla rete. Quando scrivevo di cyberspazio notavo che mancava un termine corrispondente e correlato per il mondo esterno al web. Mi sono ricordato degli ilozoisti, filosofi greci che credevano nella materia animata, e ho coniato il nuovo termine sull'ulè, un genus cui ricorro spesso quando parlo di cyberfilosofia.
L'ulespazio si pone con il cyberspazio in perenne tensione dialettica, per dirla con Hegel. Il primo ostacola il secondo intervenendo con leggi, istituzioni, polizie, echelon etc. a frenare la libertà della rete. Questa, per affermarsi, ha bisogno di campioni, tipo hacker, i quali da un lato difendono l'anarchia gioiosa, goliardica e creativa del web, dall'altra gettano i semi di azioni a favore dell'Uomo da sviluppare non solo nella rete ma anche nel mondo esterno. Ecco, quindi, che l'ulespazio si pone come terreno di conquista pacifica e invasione da parte del cyberspazio.
Come in guerra il generale deve avere una chiara visione dei territori da difendere e da occupare così deve fare il Cybernauta Umano, distinguendo l'ulespazio e il cyberspazio. Tutto sempre con metodi pacifici.
La rete ha contenuti per certi versi apocalittici che quando verranno fuori rovesceranno il mondo. In un'intervista a Luther Blisset affermavo: "Noi dell'ANTIARTE abbiamo gettato omeomericamente il seme. Aspettiamo solo che il messaggio dilaghi. Dopo ci sarà l'invasione nel mondo esterno. In Internet l'idea muoverà la storia". Il pensiero corre ad Hegel. Ed è inevitabile. "Ciò che è reale è webcyberazionale. Ciò che è webcyberazionale è reale".

In appendice, tra i vari manifesti storici degli hackers, appare per la prima volta in assoluto quello della DUDDA. Lo ritieni, quindi, un manifesto hacker?

Quando elaborai la DUDDA non conoscevo la filosofia hacker. Tanto meglio. Avendola scoperta e trovando straordinarie similitudini, mi convincevo vieppiù della mia idea base dell'ANTIARTE: e cioè che non c'è più proprietà intellettuale di un'idea, di un'opera ma al più detentio ovvero possesso in nome dell'Umanità. L'uomo in grande crea serbatoi di idee, progetti, opere cui gli autori e filosofi del tempo attingono a piene mani per cui attribuire in maniera radicale la paternità di una creazione a chicchessia è impresa ardua. Questa considerazioni creano ulteriore cemento alla costruzione dell'edificio anticopyright. Le idee, le opere, le musiche etc. davvero galleggiano nell'aria e chi le acchiappa per primo è solo il più fortunato, ma non ha nessun potere esclusivo su quelle monadi.

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