L'ETICA NELL'ETA' DELLA TECNICA by Umberto Galimberti
Umberto Galimberti
insegna Filosofia della storia allUniversità di Venezia.
Tra i libri pubblicati: Heidegger, Jaspers e il tramonto dellOccidente
(Marietti 1975, e ora il Saggiatore 1996), Linguaggio e civiltà
(Mursia 1977), Psichiatria e fenomenologia (Feltrinelli 1979), Il
corpo (Feltrinelli 1983), La terra senza il male (Feltrinelli 1984),
Invito al pensiero di Heidegger (Mursia 1986), Gli equivoci dellanima
(Feltrinelli 1987), Il gioco delle opinioni (Feltrinelli 1989), Dizionario
di psicologia (Utet 1992, e ora Garzanti 1999), Idee: il catalogo è
questo (Feltrinelli 1992), Parole nomadi (Feltrinelli 1994), Paesaggi
dellanima (Mondadori 1996), Psiche e techne (Feltrinelli 1999),
Le orme del sacro (Feltrinelli 2000).
Il progresso
tecnico-scientifico provoca a quanto pare l'irreversibile decadenza dell'umanesimo.
Ciò vorrebbe dire che il pensiero viene sottomesso alla potenza della
tecnica. Una volontà di dominio che tutto può "volere" in quanto
vuole in primo luogo il proprio infinito potenziamento. Una potenza che dunque,
innanzi tutto, "vuole se stessa". Non potendo comunque cambiare
il corso alla storia, queste critiche-osservazioni alla superpotenza della tecnica
non nascono dall'ammissione nostalgica di un qualcosa che non c'è più
per cui l'umanesimo non sarebbe stato in grado di perpetuare il proprio dominio
e proprio allora la tecnica avrebbe preso il sopravvento su tutto: sull'etica,
sulla morale e anche sui sentimenti?
Che l'umanesimo sia finito
è una storia vecchia almeno di cent' anni nel senso che già lo
diceva Heidegger nel 1930. Cosa vuol dire umanesimo fondamentalmente?
Che l'uomo può governare la terra: ecco oggi questa proposizione non
è più praticabile. Per "tecnica" intendo l'oggettivazione dell'intelligenza
umana, la quale è decisamente superiore a qualsiasi uomo, per cui non
è più possibile pensare l'uomo come colui che dispone della terra
ma bisogna pensare a quei processi di oggettivazione della sua intelligenza
che si chiamano tecnica e che, essendo superiori alla capacità di tutti
gli uomini (intesi sia come individui, sia come gruppi), governano la tecnica,
ossia governano la terra. Il problema grosso è che la tecnica non ha
uno scopo. Nel senso che, nelle età pretecnologiche, la tecnica è
sempre stata pensata come un mezzo. E gli scopi li assegnavano gli uomini.
Oggi la tecnica non è
più un mezzo perché, essendo diventata la condizione universale
per realizzare qualsiasi scopo, essa diventa il primo scopo: ciò cui
ci si rivolge, innanzitutto, e alla cui conquista tutti gli uomini tendono.
Solo che, quando un mezzo diventa scopo, si rivela anche un mezzo senza scopi.
Per cui la tecnica a questo punto è diventata scopo. Quindi la cosa si
fa ancora più drammatica, poiché essa tende esclusivamente al
proprio potenziamento. Io produco ad esempio una leva: in seguito farò
una leva più potenziata, poi ancora più potenziata. Ma questa
descrizione vale finché la leva è un mezzo: però se la
leva non è più un mezzo ma diventa lo scopo, allora resta la struttura
del mezzo che è quella di potenziarsi sempre di più senza alcuna
finalità.
Ora, siccome
la politica può realizzare i suoi scopi solo se si dispone dell'apparato
tecnico, siccome la stessa religione può realizzare il suo universalismo
solo disponendo di mezzi tecnici, è chiaro che tutti vogliono la tecnica,
la quale però è un fare afinalizzato, un potenziamento afinalizzato,
per cui l'uomo oggi si trova in uno scenario senza orizzonti. E non li può
certo assegnare alla tecnica questi orizzonti, appunto perché la tecnica
è più forte di lui. Questa è una persuasione diffusa anche
a livello elementare: ad esempio la gente oggi di fronte ad un incidente stradale
o a uno scontro fra due treni spesso cosa dice? Che è stato un "errore
umano", per cui l'uomo è già pensato come un errore, e lo si pensa
dunque solo in relazione alle esigenze dell'apparato tecnico.
Sì, la cosa
strana è che sembra di esser di fronte ad un nuovo individuo...
Questa è la nostra
visione antropomorfica: non avendo altro linguaggio l'assumiamo come soggetto.
Però la tecnica può essere definita come la forma più alta
di razionalità umana, più alta ancora dell'economia che
è pure una forma razionale perché l'economia è ancora
corrotta da una passione umana, ovvero la passione per il denaro; mentre la
tecnica è la forma più alta di razionalità, quindi è
assolutamente anonima e indifferenziata.
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Un'altra cosa che
a me pare strana: non è comunque la tecnica un prodotto della mente dell'uomo?
Sì, però
il prodotto ha superato il produttore, per cui sono convinto che tutti quelli
che usano il computer sono inferiori al computer che usano, nel senso che non
sono capaci di "manipolarlo" come un semplice strumento...
Sì, ma questo
è il problema di coloro che non hanno voglia non dico di pensare,
perché pensare non ti risolve i problemi della macchina però
di sforzarsi, di essere convinti che si può approfondire la conoscenza
del mezzo...
E' vero quando parliamo
di un computer, ma l'apparato tecnico è un complesso di sottoapparati.
Ora, il fatto è che l'apparato tecnico risultante dalla somma di tutti
gli apparati è decisamente superiore a tutte le competenze. Per cui bisogna
anche smobilitare l'idea che esista un potere, un presidente degli Stati Uniti
che possa controllare la tecnica. No. Anche perché le competenze tecniche
sono arrivate ad un livello tale che, per esempio, in America sono nate delle
tv divulgative non per far capire le cose alla gente comune ma per far capire
al fisico A, che sta studiando una certa cosa, come poter intendersi col fisico
B... per cui tra di loro già non si intendono più... dunque, pure
a livello di specializzazione non c'è più nessuno che è
davvero "competente". E non è solo il caso della fisica. Lo stesso avviene
nel mondo dell'informazione. Oggi la politica guarda all'economia per decidere,
quindi la politica non è più il luogo della decisione. L'economia
a sua volta guarda alle risorse tecniche per investire. Quindi la tecnica finisce
per essere il luogo della decisione priva di effettivo "discernimento", perché
non ha in vista scelte, scopi, che non siano il suo mero potenziamento.
Se la tecnica è
lo stadio ultimo di questo discorso, se però poi lei dice che non siamo
ancora nel pieno svolgimento dell'età della tecnica, cosa sta succedendo?
Direi che la tecnica non
è ancora la forma universale del mondo, innanzitutto per una ragione
geografica, perché la tecnica è un evento solo occidentale. Inoltre,
anche all'interno dell'occidente ci sono dei residuati antropologici, nel senso
che oggi ancora il potere politico può dire alla tecnica ti potenzio
qua e non ti potenzio là... Perché si arrivi all'egemonia totale
ci vuole ancora un po' di tempo: in questo senso dico "non si è
ancora fatta sera", però non vedo l'alternativa.
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«Come fa l'etica
che non può, a dire alla scienza e alla tecnica, che possono, di non
fare ciò che possono?» A me sembra che l'attenzione sia sempre
rivolta verso l'esterno, come per dire che è tutto inevitabile. L'etica
non ha forse delle colpe?
Io non
farei una critica all'umanesimo, perché l'umanesimo ha gestito un'etica
finché si pensava che il bene e il male fossero faccende che riguardavano
la sfera umana. Nessuno pensava che l'aria o l'acqua rientrassero nella responsabilità
umana, perché ce n'era tanta e gli uomini erano pochi, per cui le visioni
etiche che finora abbiamo costruito avevano nel bene e nel male limitato la
sfera umana. Noi sostanzialmente possiamo distinguere tre etiche nella storia
della cultura occidentale: la prima è quella dell'intenzione, per cui
io sono colpevole o non colpevole a seconda dell'intenzione che avevo nel compiere
un'azione. Su questo si è fondato tutto l'ordine giuridico dell'Europa:
di fronte a un fatto si dice se il delitto era intenzionale, preterintenzionale,
eccetera. Ora, a me sapere le intenzioni di uno scienziato, ad esempio di Fermi
che inventa la bomba atomica, non interessa niente sul piano etico, mi interessano
piuttosto gli effetti della bomba atomica. Per cui l'etica dell'intenzione di
origine cristiana non mi serve più.
Abbiamo
poi un'etica laica che trova in Kant il suo maggiore esponente: afferma che
l'uomo deve essere trattato sempre come un fine e mai come un mezzo, lasciando
implicito che tutte le altre cose possano invece essere trattate come un mezzo.
Solo che oggi posso davvero trattare come un mezzo gli animali, i pesci, le
piante, l'aria, l'acqua, cioè tutto quel che è fuori dall'umano?
No, perché la tecnica mi sta disfacendo l'habitat in cui vivo, per cui
devo costruire un'etica che si faccia carico di sfere extraumane di cui anche
l'etica laica non aveva formulato il principio.
Poi c'è una terza
etica, messa in circolazione da Max Weber, che è l'etica della responsabilità
(1910). Weber dice che non bisogna guardare l'intenzione degli uomini, bisogna
guardare gli effetti delle loro azioni. Poi però apre una parentesi e
dice: «quando gli effetti sono prevedibili». Ora, è proprio
della tecnica produrre effetti imprevedibili, ad esempio gli organismi geneticamente
modificati hanno degli effetti che non conosciamo ancora, però la tecnica
biogenetica va avanti. Ecco allora che anche questa etica della responsabilità
non funziona. Altre non ne abbiamo inventate. E allora ci troviamo nella posizione
patetica per cui l'etica invoca la tecnica di non fare ciò che può.
Ad esempio, si può fecondare in mille maniere: si può fare o non
si può fare? L'etica può dire quello che vuole la tecnica va avanti
e fa. Perché il motto della tecnica è che «si deve fare
tutto quello che si può fare». Questa è l'etica della tecnica,
prescindendo da tutte le conseguenze.
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«Inquietante
non è che il mondo si trasformi in un unico apparato tecnico ancora
più inquietante è che non siamo affatto preparati a questa radicale
trasformazione del mondo» (Heidegger). La consapevolezza di ciò
a cosa porta? Io personalmente vivo quest'ansia da tecnica (cellulari, computer
) ma il sapere quali sono i danni miei e della civiltà non mi consola,
anzi mi intristisce ancora di più perché sento la frustrazione
e l'impotenza del non poter fare nulla, anche perché se io dico no alla
tecnica, a parte il vivere male, vivo comunque in un mondo tecnicizzato.
Qui Heidegger sta dicendo
che la tecnica non solo ha degli effetti sul mondo esterno ma ha degli effetti
anche su di noi; dice anche un'altra cosa che è inquietante: il fatto
per cui noi non disponiamo di un pensiero che non sia il pensiero del calcolo.
Oggi per noi occidentali pensare significa far di conto, calcolare, prevedere,
fare piani, organizzare, ma questo è pienamente il pensiero tecnico.
Allora la tecnica è già entrata a modificare il nostro modo di
pensare: questo è l'inquietante. Allora la domanda è questa, non
è inquietante che il mondo si trasformi in un apparato tecnico, non è
inquietante abbastanza il fatto che noi non siamo preparati, ma è inquietante
il fatto che non disponiamo neppure di una risorsa di pensiero alternativa,
perché la tecnica ha già condizionato il nostro modo di pensare
trasformando il pensiero in calcolo e quindi noi siamo organici alla tecnica
già nel nostro stesso modo di pensare.
La gente
non accetta queste cose: continua a pensare di vivere in un'epoca umanistica
e ha, sì, una certa ansia della tecnica, ma è sempre persuasa
che l'uomo possa controllare con la volontà la tecnica medesima. E invece
bisogna rendersi conto che la tecnica modifica radicalmente le figure con cui
l'umanità ha pensato se stessa. Per esempio, modifica il concetto di
verità. Per cui è vero quello che è efficace, quello che
fa effetto: questo non si era mai detto, modifica il concetto di libertà
perché io posso scegliere alla sola condizione di poter essere tecnicamente
competente, perché se invece non ho una competenza non posso affatto
scegliere...
Quindi, la libertà
è cadenzata dalla competenza tecnica. L'individuo va in crisi perché
nell'età della tecnica, per effetto dei mezzi di comunicazione, ciascuno
pensa quello che pensano tutti, e allora a questo punto anche la storia dell'individuo
deve essere rivisitata. Le rivoluzioni non sono più possibili nell'età
della tecnica perché le rivoluzioni sono possibili quando ci sono due
volontà, il signore e il servo, ma nell'età della tecnica sia
il signore sia il servo sono subordinati all'accadere tecnico. Nel senso che
non è solo l'operaio a dover sottostare alle leggi del mercato, ma anche
il capitalista. Quindi, la tecnica riduce i contendenti a subordinati, per cui
la rivoluzione è impossibile. Con chi me la prendo? Con la tecnica che
è la condizione della mia vita? E allora, in questo senso, diciamo che
parlare della tecnica significa oggi svegliare la gente e dire: rendetevi conto
che siamo nell'età della tecnica e se continuate ad abitare questo nuovo
paesaggio con categorie umanistiche vivete in un altro mondo, non siete all'altezza
del mondo in cui vi muovete. Quindi si tratta di una sorta di educazione alle
consapevolezza che le categorie umanistiche oggi non funzionano più,
cioè sono disadatte ad interpretare questo mondo.
E per quelli che già
se ne rendono conto?
Oggi la
tecnica funziona ancora come mezzo di volontà contrastanti, poi arriverà
ad un punto in cui eliminerà anche le volontà contrastanti. Prendiamo
ad esempio il capitalismo: il capitalismo per espandersi, per seguire la sua
logica espansionistica finisce per distruggere la terra che è l'elemento
della sua ricchezza e allora cosa fa per rallentare la distruzione della terra?
Deve ricorrere alla tecnica. E la tecnica pone le sue leggi indipendentemente
dalle leggi del capitale. Per cui anche la conceria di Treviso per fare il profitto
deve distogliere parte del suo profitto per realizzare il depuratore. Questo
vuol dire che il capitalismo sta cominciando a pagare dei costi alla tecnica.
In qualche modo oggi è ipotizzabile un riscatto dell'umanità proprio
grazie alla tecnica.
Può secondo
lei l'arte intesa in senso ampio come "espressione artistica"
essere una via di fuga per quel mondo perduto della psiche, della fantasia,
delle emozioni e dei sogni? E come vede in tal caso il rapporto tra arte e tecnica?
L'arte
è l'ornamento del capitale. L'arte può essere sì un'alternativa
alla tecnica, ma dal punto di vista, appunto, della via di fuga. La tecnica
è efficentistica e incide anche nelle pratiche quotidiane della vita.
L'arte esiste, ma può essere un contraltare alla tecnica solo se il mondo
si organizza artisticamente. Ma non mi pare che il mondo si organizzi in questo
senso. Non dovremmo forse sempre vedere qual è la parola senza la quale
non si può spiegare ciò che succede? Se io tolgo la parole "arte"
questo mondo va avanti lo stesso? Mi pare di sì. Se tolgo la parola "tecnica"?
No. Allora l'arte non è un contrappunto della tecnica, è un rifugio
estetico ed emotivo. Qualcosa come il weekend più nobile rispetto ad
un weekend ormai tecnicizzato, poiché ormai assistiamo anche alla tecnicizzazione
del tempo libero. Dopodiché, c'è l'ultima speranza da affidare
al terzo o quarto mondo, nel senso che la tecnica è un elemento solo
occidentale che investe 800 milioni di persone che consumano l'80% delle risorse
del mondo. La tecnica in sé è una struttura fortissima ma anche
debolissima. Ad esempio, il terrorismo capta la debolezza della tecnica. La
sua fragilità.
Venezia, 12 Giugno 2002
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