Una
breve discorso di Tommaso Tozzi sull'hacktivism, prima di leggersi il
libro "Hacktivism. La libertà nelle maglie della rete"
realizzato da A. Di Corinto e T. Tozzi, ManifestoLibri, 2002.
Alla base dell’hacktivism c’è una tradizione
di pensiero e di pratiche millenarie.
Nel dopoguerra queste tradizioni hanno continuato a contaminare
la cultura ed i saperi attraverso una linea di discontinuità che ha causato
rivoluzioni e trasformazioni nei più svariati ambiti disciplinari: scientifici,
accademici, politici, artistici, economici, mediatici, etc.
Negli anni 50/60 l’ambito artistico assisteva
alla nascita al suo interno di movimenti e correnti quali sono stati ad
esempio Fluxus e il Situazionismo, mentre le culture
di movimento e comunitarie incrociavano la nascita dell’Etica Hacker
e lo sviluppo di nuove forme di scienza e tecnologia.
Pur perseguendo strategie e modalità molto
differenti tra loro, alcuni di questi ambiti disciplinari hanno condiviso
spesso in modo inconsapevole valori ed obiettivi:
il rifiuto
dei modelli di legittimazione del potere elaborati dall’industria
culturale e dai media.
Un forte
antiautoritarismo ed il rifiuto dei modelli istituzionali
Il tentativo
di restituire voce ai senza voce.
Il rifiuto
di delegare ad altri la propria creatività.
La ricerca
di modelli di “opera aperta” e di forme di cooperazione.
La volontà
di realizzare pratiche di impegno sociale.
Mentre negli ambiti artistici proliferavano
le operazioni di decontestualizzazione, trasformazione e produzione
di senso, di critica al sistema delle merci e dello spettacolo,
alla realizzazione di happening ed alla smaterializzazione dell’oggetto
artistico, dalla fine degli anni cinquanta all’interno del Tech
Model Railroad Club e tra gli hacker allievi di Minsky e McCarthy
al MIT si respirava un forte spirito di antiautoritarismo che dava
luogo a pratiche che si riconoscevano in quelle parole d’ordine che oggi
sono alla base dell’hacktivism:
l’accesso
ai saperi
metterci
le mani sopra
tutta
la tecnologia al popolo
parole d’ordine che ritroviamo all’inizio degli anni ottanta
nelle pratiche di hackeraggio sociale del Chaos Computer Club
di Amburgo.
Il rifiuto della delega è uno degli
assunti che si riconosceva nella ricerca di decentramento che oltre
ad essere una tendenza politica (il potere al popolo!) era anche una tendenza
in certi ambiti scientifici. E’ il caso, ad esempio, degli studi sulle
comunità telematiche dello psicologo Licklider, così come dei modelli
di rete di Baran, del lavoro di Cerf e molti altri.
Il rifiuto dei modelli istituzionali
ha dato luogo nel campo dell’informatica alla nascita di un nuovo modo
di programmare il computer basato sul time sharing (vs. batch file),
adottato e sviluppato dagli hacker del MIT, che ha permesso un’evoluzione
delle forme di interattività nell’uso dei computer.
L’impegno sociale si è risolto nello
sviluppo di modelli di progettazione aperti e cooperativi
che avevano come assunto la condivisione dei saperi.
E’ il caso, ad esempio, dell’Homebrew Computer Club,
del Community Memory Project, dei Request For Comment (RFC)
di Crocker, così come del lavoro dell’International Network
Working Group.
Mentre nel campo artistico nascevano forme
di arte collettiva nel campo della comunicazione si sviluppavano
fin dagli anni Sessanta forme di trasformazione e mobilità dei media
che evolveranno in quelle pratiche oggi identificate nel settore dei media
indipendenti.
Simultaneamente si incrociavano con le speculazioni
sull’intelligenza collettiva che teorizzavano e riconoscevano
l’esitenza di:
il sapere
collettivo
la disseminazione
del sapere collettivo nello spazio quotidiano degli artefatti.
e con le teorie sul decentramento del senso attraverso
le teorie su:
gli ipertesti
(Bush, Nelson, Berners Lee) e l’evoluzione dell’enciclopedia illuminista
nel web.
il rizoma
(Deleuze e Guattari)
e la progettazione in parallelo che si sviluppava nelle reti
neurali e nel connessionismo.
Alla critica dei modelli culturali di legittimazione
del potere (Foucault e la teoria del controllo sociale)
corrisponde una guerra dei segni di cui le strategie del falso
sono uno dei suoi aspetti. Vedi ad esempio le false testate di quotidiani
negli anni Settanta (Il Male), i seminari e le ricerche dei semiologi
a Bologna negli anni Settanta, il plagiarismo, o le operazioni
sul nome collettivo Karen Eliot e Luther Blisset.
Ma la guerra dei segni si è sviluppata
anche attraverso forme di arte urbana (vedi ad esempio Fekner)
e nel movimento dei graffiti, o attraverso forme di hackeraggio
dell’etere (vedi ad esempio Clarke).
La guerra semiotica ha avuto un risvolto
recente in rete con le operazioni di:
Defacement
(il deturnamento in rete, ovvero la sostituzione del contenuto
di un sito web con un altro contenuto, spesso di carattere antagonista)
Fake
(il deturnamento analogico, ovvero la sostituzione del contenuto
di cartelloni pubblicitari fatta ad esempio dal gruppo Bilboard Liberation
Front e dall’area di Adbuster)
Digital
Hijacking
(il rapimento o dirottamento virtuale dell’utente. Il
motore di ricerca risponde ad una parola chiave dirottandolo su un sito
che contiene contenuti ben differenti, spesso antagonisti, da quelli relativi
all’argomento richiesto dall’utente. Vedi il gruppo Etoy)
Cybersquatting
(la creazione di un dominio simile a quello di un altro sito,
che contiene una rappresentazione visiva simile a quella delle pagine
dell’altro sito, ma i cui contenuti sono diversi in dei punti fondamentali.
Vedi il gruppo ®t Mark)
Queste ultime operazioni hanno in comune la
messa in discussione del senso dominante. Fanno controinformazione
non solo fornendo punti di vista differenti sullo stato delle cose,
ma mettendo anche in crisi la legittimazione e l’autorità dei media
ufficiali. Esportano scetticismo, instillano un dubbio
nella coscienza, producono senso non autorizzato.
L’obiettivo infine di dare voce ai senza
voce, di restituire a chiunque libertà creativa ed autonomia di espressione
è stato un assunto che ha attraversato moltissime esperienze dell’attivismo
in rete:
dalle
prime comunità virtuali.
Alle reti
di BBS.
Al cyberpunk
(vedi in Italia il gruppo Decoder)
Alle esperienze
dei netstrike nati in Italia nel 1995 grazie a Strano Network
e poi diffusi in seguito in tutto il mondo.
Fino alle
esperienze dei cosiddetti media indipendenti che nella telematica hanno
avuto in Europa un punto di riferimento nell’European Counter Network
nella seconda metà degli anni Ottanta e quì in Italia nella rete di
BBS Cybernet, per arrivare nella seconda metà degli anni Novanta
alle esperienze di Isole nella Rete, al recente Indymedia
e a molti altri ancora.
Tutte le esperienze descritte fino ad ora
condividono buona parte degli assunti base dell’etica hacker. Un’etica
che ha origini millenarie e che ha ispirato le pratiche che si riconoscono
nel termine hacktivism. Un'etica che è alla base di questi
hackmeeting.
E’ impossibile narrare in un libro, e tanto meno in un intervento,
le innumerevoli esperienze di gruppi ed individui che si sono fatti portatori
dell’etica hacker e dell’hacktivism.
L’hacktivism è un’attitudine...
...molto più diffusa di quanto non si creda!
Approfondisci il tema leggendo:
"Hacktivism.
La libertà nelle maglie della rete"
realizzato da A. Di Corinto e T. Tozzi, ManifestoLibri, 2002.
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