P. LÉVY Cybercultura, Milano, Feltrinelli, 1999
(trad. it. di D. Feroldi, Cyberculture, Paris, O. Jacob,
1997) by Maria Chiara Pievatolo
Pierre
Lévy, francese, filosofo della tecnica, allievo di
Castoriadis, è un autore che in rete non ha bisogno di
presentazioni. Fra le sue opere,
Cybercultura merita una attenzione particolare da parte di
chi si occupa di filosofia politica: se si dà conoscenza
solo nella misura - e nel modo - in cui essa viene comunicata e
distribuita, allora il problema della comunicazione
del sapere è una questione interessante - soprattutto
in un'epoca di rivoluzioni mediatiche - sia dal punto di vista
della filosofia, sia dal punto di vista della politica.
Internet non è soltanto una rivoluzione tecnica.
Contro la scolastica heideggeriana, Lévy sostiene che
tecnica, cultura e società sono entità
interconnesse, distinguibili solo per comodità analitica
(pp. 25-33). La storia dell'umanità è la storia
della techne,
nel senso ampio che questa parola ha in greco: un rapporto col
mondo che comprende l'elaborazione e la trasmissione di strumenti
concettuali e nozioni, di istituzioni e artefatti. Per questo,
l'immagine dell"impatto" delle tecnologie sulla società
e sulla cultura non è molto felice: le tecniche non sono
qualcosa di alieno, ma possibilità che nascuno dalla
cultura ed entrano a farne parte. Si può ritenere,
heideggeriamente, che la relazione della tecnica con l'essere sia
manipolatoria: ma, perché questa critica abbia un
contenuto non soltanto polemico, occorrerebbe indicare un altro
modo, non tecnico, non informativo, non concettuale, di produrre,
comunicare e distribuire conoscenza. L'opacità della
tecnica, il suo aspetto estraniante, è dovuta al processo
sociale di mutamento: l'attività degli altri ricade
sull'individuo come se fosse qualcosa di esterno; e questo
avviene tanto più - dice Lévy - quanto più
il cambiamento tecnico è rapido. Per questo, a maggior
ragione, il problema della tecnica è, più
propriamente, un problema politico di produzione e
distribuzione della conoscenza. È facile che la tecnica si
manifesti come manipolazione se il sapere - e la possibilità
e i modi di comunicarlo - sono distribuiti in maniera disuguale.
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Le società orali, sebbene affidassero la
trasmissione dell'informazione a tecnici della memoria - per
esempio i poeti
nella Grecia preclassica -, non separavano il discorso dal suo
contesto: la conoscenza, trasmessa da persona a persona, non
poteva staccarsi dal flusso vitale nel quale era immersa (pp.
18-21), se voleva perdurare, senza cadere nell'oblio. Questo
produceva, secondo Lévy, una totalità
senza universale: il soggetto conoscente era tale
solo in quanto rimaneva legato, e indifferenziato, rispetto al
suo contesto. Il contesto è una totalità per chi ne
fa parte, ma non un universale, perché è
inseparabile dalla particolarità degli individui e delle
relazioni interpersonali. Forse questo sapere poetico e
preconcettuale si avvicina a quanto vagheggiano i critici della
tecnica: ma i suoi limiti comunicativi, cioè il suo
carattere radicalmente particolare, non assicurano che esso sia
al riparo dalla disuguaglianza e dall'estraneazione. Il potere
appartiene a chi sa far ricordare
in modo autorevole. Anche il cosiddetto evento - l'accadere
nella sua nuda fattualità -, cui gli heideggeriani amano
richiamarsi, ci è noto solo se viene raccontato - e
imposto alla memoria - da qualcuno in una storia. Con
l'avvento della scrittura, i testi si separano dal contesto
vivente in cui sono nati. La scrittura offre, in cambio della
perdita dell'immediatezza propria della relazione faccia a
faccia, uno spazio di comunicazione maggiore, ed è
l'occasione per la nascita del sapere concettuale, con la sua
aspirazione all'universalità. L'universalità
del libro, tuttavia, è di natura totalizzante:
il testo è qualcosa di limitato e in sé conchiuso:
per avere un senso deve, almeno in qualche aspetto,
pretendere di esaurire in sè tutto il senso, lasciando
fuori la pluralità aperta dei contesti attraversati e la
diversità delle comunità che li fanno circolare.
Parafrasando Umberto
Eco, un testo come il Vangelo secondo Giovanni è
un testo proprio perché, per quanto esso sia soggetto a
una molteplicità di interpretazioni, non se ne potrà
mai ricavare né la dimostrazione del teorema di Fermat, né
la filmografia completa di Woody Allen. Il vangelo può
essere vangelo solo se e perché è semanticamente
chiuso. I media tradizionali, continua Lévy,
proseguono sulla falsariga dell'universalizzazione totalizzante
iniziata dalla scrittura: giornali e televisioni devono
coinvolgere - essendo una forma di comunicazione di tipo
uno-tutti - il maggior numero di persone possibili, e per questo
devono incontrare il minimo comune denominatore mentale dei
destinatari. Il loro spazio di comunicazione è privo di
interazioni, dato che i riceventi sono tecnicamente costretti ad
essere passivi: per questo, devono fabbricarsi un pubblico
indifferenziato, e giocare su emozioni e conoscenze elementari.
Per definizione i media contemporanei "totalizzano",
cioè pretendono di racchiudere - o di essere - il mondo,
con una pretesa di esaustività. Non a caso questi media,
intrinsecamente autoritari, sono stati e sono il veicolo
privilegiato della propaganda totalitaria - sia essa politica od
economica - e del totalitarismo della propaganda (pp.
107-117).
La rete rende pensabile qualcosa di differente
sia dalla totalità senza universale delle culture orali,
sia dall'universale totalizzante delle culture scritte e
mediatiche. Al dispositivo comunicativo di tipo uno-uno (posta,
telefono) e di tipo uno-tutti (televisione, giornale), si è
aggiunta la possibilità di una comunicazione tutti-tutti,
cioè di un nuovo modo di distribuire la conoscenza, cui
tutti coloro che sono connessi possono partecipare
interattivamente e ove non esiste un emittente virtualmente
privilegiato. Diventa così possibile sia comunicare
l'informazione in maniera universale, come nella civiltà
della scrittura, sia interagire e creare dei contesti, come nelle
culture orali. Queste possibilità si possono attualizzare
in presenza di un movimento sociale che sappia trar vantaggio da
questi tre princìpi (pp. 119-129):
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# interconnessione:
i veicoli di informazione non sono più nello spazio, ma
diventano uno spazio, una telepresenza generalizzata in un
continuum, che può essere pensato e percorso come
un grande ipertesto;
# creazione
di comunità virtuali: una comunità virtuale si
costruisce, data l'interconnessione, su affinità di
interessi e di conoscenze, sulla condivisione di progetti, in un
processo di cooperazione e di scambio, che prescinde dalle
appartenenze istituzionali;
# intelligenza
collettiva: è ciò che può venir prodotto
dalla compresenza di una massima accessibilità
dell'informazione - di una conoscenza messa in comune - e dalla
possibilità offerta alla persone di interagire fra loro
senza mediazioni.
Questo
nuovo scenario virtuale può essere compreso con la nozione
di universale senza totalità:
ogni universalizzazione, nella misura in cui pretende di
essere esauriente e in sé conchiusa, produce nello stesso
tempo totalità ed esclusione. La rete, la cui unica
pretesa è la connessione in un ordine non gerarchico che
può essere variamente interpretato nella prospettiva di
ciascun nodo, esprime una esigenza di universalità che
però, non avendo in se stessa un senso, non è
totalizzante ( pp. 238 ss.). Chi è fuori dalla rete non è
escluso, bensì sconnesso: e questo, significativamente,
viene percepito come una deficienza non dell'escluso, ma della
rete stessa, pensata come dispositivo di informazione.
In
un momento in cui, in Italia, si sta mettendo in dubbio la
necessità di disseminare fra le varie discipline un sapere
non specialistico come la filosofia,
Lévy invita a pensare a un mondo nel quale l'accessibilità
diretta dell'informazione in rete mette in crisi sia il ruolo
dell'insegnante come trasmettitore e venditore di nozioni, sia il
potere dei media tradizionali; un mondo nel quale lo
stesso "mercato" non si accontenta più di una
"professionalità" che rimanga immutata
dall'inizio alla fine della vita lavorativa, ma richiede un
apprendimento permanente. Scuole e università non potranno
più essere luoghi di concentrazione della conoscenza come
collezione di nozioni, ma dovranno diventare animatrici
dell'intelligenza collettiva, per allievi che, potendole trovare
da sé, non hanno più bisogno di nozioni, bensì
di carte nautiche personali per muoversi nel mare
dell'informazione (pp. 153-162). Ragionare in questi termini
significa proporre di trattare l'informazione in quanto tale non
come un oggetto di proprietà privata e di compravendita,
ma come un bene pubblico, il cui valore sta
nell'accessibilità, nella condivisione e
nell'interconnessione. Questo è un punto in comune fra
l'etica hacker
e l'ideale marxista della collettivizzazione dei mezzi di
produzione, se l'informazione va annoverata fra questi. E bisogna
chiedersi, come fa, con molta chiarezza Lévy, se la
riduzione dell'informazione a res privata non sia connessa
alla volontà di conservare posizioni di potere sia nella
distribuzione, sia nella acquisizione della conoscenza.
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Je
crois qu'il y a un élément de défense d'une
position ou d'un pouvoir qui est remis en question par Internet.
Il y a un aspect tout simplement d'ignorance, souvent ceux qui
sont contre le cyberespace parlent sans trop savoir ou en
plaquant sur Internet des lieux communs genre "c'est la
culture Coca-Cola" ou bien c'est parce qu'il y a des
pouvoirs et des monopoles qui sont menacés. Beaucoup
d'intellectuels sont directeurs de collection dans des maisons
d'éditions, professeurs qui animent des revues, et là,
avec le réseau, il y a tout un mouvement de communication
qui échappent totalement aux réseaux traditionnels.
C'est une culture différente. Si vous avez réussi à
acquérir un petit pouvoir dans une zone qui devient
tranquillement marginale, vous n'êtes pas content.
(http://www.archipress.org/levy/entretien.htm)
Pierre
Lévy non menziona, fra i suoi punti di riferimento, Kant,
per quanto si percepisca, nella sua idea di universale senza
totalità, una forte assonanza kantiana. Le idee della
ragione - anima, mondo, Dio - recano in sé un ideale di
totalità come unità contenutistica in una
conoscenza sistematica, ma, nello stesso tempo, comportano la
consapevolezza che la nostra esperienza, per il suo carattere
particolare, non potrà mai esaurirlo, a meno che non
compia, appunto, una indebita e riduttiva totalizzazione. Per
questo, una ragione intesa criticamente si riduce all'esigenza di
una connessione universale, senza nessuna totalità in
atto: qualcosa di molto simile a una rete, la cui capacità
di universalità e di autocritica è identica alla
sua apertura a sempre nuove connessioni, e la cui
universalizzabilità è un problema di carattere
pratico, teoreticamente inesauribile.
L'idea di
pubblicità ha un ruolo importante nel pensiero politico di
Kant. In Zum
ewigen Frieden Kant propone due princìpi
trascendentali del diritto pubblico, uno negativo e l'altro
positivo: quello negativo recita che "tutte le azioni che si
riferiscono al diritto di altri uomini, la cui massima non è
compatibile con la pubblicità sono ingiuste" (B 100/A
94); quello positivo che "tutte le massime che hanno bisogno
della pubblicità per non venir meno al loro scopo
concordano insieme con la politica e col diritto" (110/A 103
). Kant ha cura di precisare che la sua idea di pubblicità
non si identifica col semplice dire qualcosa in pubblico: in
situazioni di disparità di potere, il dominante può
permettersi di annunciare tutto quello che vuole senza trarne
nessuna conseguenza negativa. Ma una grave disparità di
potere è connaturata alla pubblicità, che non a
caso ha assunto il senso principale di propaganda economica,
propria dei media tradizionali, intrinsecamente autoritari
nella struttura stessa - di tipo uno-tutti - del loro dispositivo
comunicativo. La rete, come spazio virtuale cosmopolitico di
interazione e di conoscenza, potrebbe essere una approssimazione
migliore all'idea di pubblicità che aveva in mente
Kant.
Tuttavia, l'applicazione dell'idea di universale
senza totalità al mondo della politica e del diritto ci
propone un problema: abbiamo bisogno della rete per conoscere, ma
continueremo probabilmente ad aver bisogno del libro - o a
qualcosa che dobbiamo pensare come un libro - per regolare il
potere e per dirimere le controversie. Un testo giuridico aperto
a infinite interpretazioni, nessuna delle quali dotata di
autorità, è un universale senza totalità,
ma, appunto per questo, non è un testo giuridico.
Potremmo salutare, con la fine del testo giuridico, la fine del
potere statale, e pensare che le potenzialità di libertà
e interazione del mondo virtuale interumano si attualizzino anche
nel mondo umano, in una anarchia cooperativa. Ma, anche se il
testo, con le sue pretese di totalità, è una forma
di potere, esso non è tutto il potere: eliminare il testo
non significa eliminare anche i poteri informali - o non testuali
- che si annidano nelle società umane. Lo scrittore
cyberpunk
Neal Stephenson, in Snow
Crash, immagina un futuro prossimo nel quale il mondo
fuori dalla rete, in una perfetta applicazione del verbo
anarco-capitalista, è diviso in un mosaico di potentati
economici e mafie in lotta fra loro, e il "Metaverso"
della rete offre, per chi ha la capacità di valersene, la
possibilità di relazioni ben diverse. Ma questo non lo
mette al riparo dalle pretese dei poteri e dei monopoli del più
prosaico universo esterno - pretese tanto più
distopicamente
smodate, in quanto non c'è più nessun potere
formale a controllarle.
Se pensiamo la cultura come un
complesso di informazioni, cioè di elementi e regole
virtuali che possono variamente attualizzarsi, il confronto fra
la rete e il libro rimane qualcosa di politicamente e
gnoseologicamente inesauribile, che non si risolve,
probabilmente, né censurando e depotenziando la rete a
favore delle autorità e delle mediazioni tradizionali, né
abbracciando l'ottimistica idea per la quale l'eliminazione delle
autorità e delle delimitazioni formali farà
scomparire ogni tipo di potere e di manipolazione.
Alcuni
riferimenti in rete
# Intelligenza
collettiva
(http://www.mediamente.rai.it/home/bibliote/intervis/l/levy.htm
)
# Evoluzione
del concetto di sapere nell'era telematica
(http://www.mediamente.rai.it/home/bibliote/intervis/l/levy02.htm)
# La
comunicazione in Rete? Universale e un po' marxista
(http://www.mediamente.rai.it/home/bibliote/intervis/l/levy03.htm)
# C'è
una "intelligenza collettiva" nel futuro
dell'evoluzione umana
(http://www.fub.it/telema/TELEMA18/Levy18.html)
# Due
filosofi a confronto
(http://www.mediamente.rai.it/home/bibliote/intervis/d/dekerc05.htm)
# A.
Dallapina, Il filosofo nell'ipertesto
(http://www.etnoteam.it/maiocchi/iperfilos/1mappax.htm)
# G.
Alù, Universale senza totalità
(http://www.apogeonline.com/recens/art_3.html)
# L'intelligence
collective et ses objets
(http://www.t0.or.at/levy/plevy.htm)
# S.
Dupuy, La démocratie électronique: Vers
l'anarchisme ou le chaos?
(http://www.cam.org/~belette/anarchisme.htm)
# A.
Caronia, I new media cambiano le emozioni?
(http://www.emsf.rai.it/scripts/frameset.asp?tabella=trasmissioni&id=234)
# B.
Sterling, The Hacker Crackdown
(http://www.lysator.liu.se/etexts/hacker/)
# C.
Gubitosa, Italian Crackdown
(http://dll04.univ.trieste.it/quattordici/italiancrack/apogeo.htm)
con un Manifesto
per la libertà di comunicazione e una bibliografia
commentata
# T.D.
Guay, The Hacker's Ethic
(http://hoshi.cic.sfu.ca/~guay/Paradigm/Hacker.html)
# V.
Bush, As we may think
(http://www.theatlantic.com/unbound/flashbks/computer/bushf.htm)
# Cybercultura
(http://www.emsf.rai.it/archivio/percorsi_tematici/cybercultura/)
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