LA SCIENZA NON CONOSCE LIMITI, MA DIAMOLE UN SENSO, PIU' UMANO by Franco Ferrarotti
La scienza moderna è un fenomeno complesso: si è "industrializzata", ha
bisogno di un sofisticato lavoro di gruppo, di una burocrazia del sapere, di
ingenti risorse economiche. E buona parte della ricchezza prodotta nelle società
avanzate deriva dai progressi tecnici che essa ha determinato ottenendo successi
straordinari. Ma ciò non significa che sia in grado di spiegare tutto, né che
possa salvare l'umanità o restituire un senso alle nostre vite.
Gli scienziati dell'antichità classica diffidavano degli uomini politici, non
chiedevano mai l'aiuto del potere. Ne temevano la tendenza a subordinare chi vi
si avvicinava piuttosto che a collaborare. Vi era anche una ragione più sottile,
interna, che riguardava l'auto-immagine dello scienziato di quell'epoca: un
certo grado di svalutazione, se non di vero e proprio disprezzo, di tutto ciò
che comportasse la subordinazione del momento teorico alle esigenze pratiche; un
timore di profanazione delle idee pure che implicava il rigetto delle
applicazioni pratiche. Che Archimede riduca, senza esitare, in cenere i taccuini
dei suoi appunti circa la tecnica dei famosi specchi ustori mediante i quali
metteva a fuoco le navi nemiche e difendeva Siracusa, la sua città, non è un
atto masochistico né un puro capriccio. Riflette una convinzione profonda: le
creazioni teoriche della mente non vanno realizzate sul piano pratico poiché non
sono mosse né giustificate da intenti puramente pragmatici o utilitari.
La situazione di oggi è ben diversa. Lo scienziato odierno non lavora più da
solo. Oggi bisogna fare i conti con la big science. La ricerca
scientifica non è più mossa dalle intuizioni di un singolo. E' legata al lavoro
di squadra; si è "industrializzata"; ha bisogno di continuità nel tempo. Il
gruppo di ricerca si è costituito come una burocrazia del sapere, come un suo
organigramma e una sua specializzazione di compiti e di funzioni. Il gruppo di
ricerca costa. La ricerca ha bisogno di finanziamenti ragguardevoli. Il legame
con gli uomini di potere e in generale con la politica e l'economia diviene una
condizione vitale. La ricerca scientifica è divenuta un fattore diretto di
produzione. La produzione, d'altro canto, per continuare a funzionare a pieno
ritmo ha bisogno di consumare. Occorre dunque ampliare sempre di più la sfera
dei consumi ed evitare il corto circuito fra sovraproduzione e sottoconsumo per
poter continuare a produrre. E' da questo punto di vista che si può agevolmente
comprendere come la tecnica venga attualmente considerata la fonte principale
della ricchezza e quindi del benessere diffuso nel mondo moderno.
Naturalmente, dire tecnica significa dire molte cose. In questo senso,
sarebbe bene relativizzare il discorso e rifiutarsi di credere a
generalizzazioni indebite. In Macchina e uomo nella società industriale
(Eri, Torino, 1962), ho notato che esiste un mito dell'anti-macchinismo e
dell'anti-tecnica elaborato da chi non ha alcuna familiarità con le macchine.
Sovraesaltazione e demonizzazione della tecnica sono entrambe da evitare. Ciò su
cui sarà bene riflettere, è che la tecnica non ha il potere di dare senso alle
cose e indicare all'uomo il suo posto nell'universo. Essa ha fatto valere la
precisione e la rigorosità delle misure rispetto al mondo pre-tecnico e
paleo-tecnico del pressappoco. Ma non tutto il conoscibile è misurabile. La
tecnica e il suo prevalere come modo generalizzato di pensare comportano il
feticismo della quantità, un'idea dimidiata di verità ridotta al mero
fattualismo. La scienza moderna, di cui la tecnica non è che l'applicazione
pratica, ha così perduto il senso del limite. Ha travalicato, e in molti casi ha
stravolto, i ritmi naturali. Ha forzato le Colonne d'Ercole e ha accettato, con
un gesto di cui è difficile calcolare l'imprudenza e la temerarietà, la sfida
mortale dell'àpeiron.
Insieme con il senso del limite, cade anche l'idea della morte, debitamente
derubricata e ridotta a incidente tecnico, lamentevole caso di malfunzionamento
cui si potrà porre rimedio con appropriati pezzi di ricambio. La morte diventa
un fenomeno di serie. Perde la sua connotazione fortemente individuale. Caduta
l'idea della morte, nessuno può dire quali siano i limiti della scienza e delle
sue applicazioni pratiche e se questi limiti esistano nella realtà. Le
discussioni della bioetica in proposito sono singolarmente impotenti e
richiamano, non senza buone ragioni, l'inconcludente vaghezza delle discussioni
nella Università di Salamanca circa il sesso degli angeli. Mentre i filosofi
della bioetica discutono, la scienza va clonando esseri viventi, cancella la
personalità della persona, replica meccanicamente l'individualità, che già si
riteneva irriducibile e irripetibile, dell'individuo. L'uomo copia se
stesso.
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Potranno la scienza e la tecnica fermarsi, autoimporsi dei limiti? La domanda
è ragionevole, tradisce un'ansia genuina e rispettabile. La risposta non può che
essere negativa. La rinuncia a ogni termine di confronto e di autovalutazione
esterno ai propri procedimenti interni in nome dell'autocorreggibilità impedisce
alla scienza e al suo "braccio armato" di imporsi autonomamente limiti
invalicabili. Per lo scienziato di oggi come per Bacone lo scopo della scienza
consiste nell'infrangere le cosiddette "leggi" di natura; anzi nel non
riconoscere come esistenti le leggi della natura, nel ritenere, per esempio, che
la gestazione di nove mesi per la nascita di un essere umano sia solo un
anacronismo dovuto a metodi antiquati. Secondo gli scienziati di oggi, quanto
meno secondo la loro grande maggioranza, non si può a rigore parlare di leggi
della natura. Si dovrebbe piuttosto parlare di metodi operativi scientifici non
ancora abbastanza evoluti. Parlare di limiti della ricerca scientifica, per la
mentalità scientistica, è illegittimo e contraddittorio. La scienza è una
procedura pubblica, da tutti controllabile. Perché dovrebbe porsi dei limiti?
Quale autorità, e in base a quali principi, potrebbe definire e sancire questi
limiti? L'unica regola etica che la scienza può riconoscere è data dalla ricerca
scientifica stessa. Non c'è "natura" che tenga. Basti pensare ai successi delle
biotecnologie. Non è forse vero che questi successi stanno inaugurando l'epoca
della riproducibilità tecnica della natura, ivi compresi gli esseri umani?
Per riconoscere e rendere espliciti i limiti della scienza occorre superare
la logica del discorso scientifico. La stessa bipartizione fra scienze della
natura, impropriamente dette "esatte", e "scienze umane", o discipline
umanistiche, non tiene più. Fin dalle origini, circa quarant'anni fa con C.P.
Snow (The two cultures and the scientific revolution, London, 1960), era
una bipartizione di comodo che esprimeva, indirettamente, il complesso di
superiorità, l'arroganza dell'esprit polytechnicien degli scienziati. La
scienza ha peccato di presunzione. Ha "geometrizzato il mondo", come Edmund
Husserl rimproverava a Galileo, "decapitando la filosofia". Anche se, a
proposito di quest'ultimo rimprovero, si potrebbe semplicemente obiettare allo
stesso Husserl che "decapitare la filosofia" è ancora, necessariamente, un atto
filosofico. Ma il vero nodo della questione, insisto, sta nel fatto che non
tutto il conoscibile è misurabile. L'esattezza numerica è una conquista
notevole, soprattutto in vista della conferma empirica delle ipotesi di lavoro.
I problemi propriamente umani, tuttavia, costituiscono delle tensioni permanenti
che sfuggono di per se stessi all'elaborazione matematica, la quale, dato il suo
carattere essenzialmente astratto, si sottrae ai limiti del rischio tautologico.
I problemi propriamente umani quali, per esempio, l'esigenza di riconoscimento
individuale, il senso dell'equità sostanziale o della giustizia non sono
formule; l'amore, l'inevitabilità della morte non si prestano a una
quantificazione puramente numerica. A volerne dare una spiegazione in termini
puramente matematici si corre il rischio indicato da Husserl: pur con le
migliori intenzioni, si procederebbe a una "geometrizzazione del mondo", che
comporterebbe inevitabilmente un grave impoverimento dell'esperienza umana. In
quanto può fare a meno della fisicità del rapporto, anche la comunicazione via
computer e Internet può correre rischi analoghi.
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Ridare un senso umano alla ricerca scientifica comporta il suo
trascendimento; richiede che si riconosca che il lungo viaggio si morde la coda,
torna sui suoi passi, sfiora il rischio di uno sradicarsi universale in una
società ormai popolata solo di "doppioni" e di simulacri, in cui i valori
strumentali sono stati trasformati in valori finali. E, tuttavia, non tutto è
puramente strumentalizzabile. Si danno valori, atteggiamenti, bisogni intorno ai
quali la scienza non ha niente da dire: l'amore, la giustizia, l'esigenza di
riconoscimento e di dignità, la morte. Per comprendere questi limiti occorre
distinguere fra due ordini di problemi che invece la mentalità scientistica
tende a confondere: a) i problemi in senso tecnico, o funzionale, che si possono
risolvere, caso per caso, mediante l'esatta applicazione delle istruzioni per
l'uso; b) i problemi propriamente umani che non sono problemi solubili caso per
caso con la semplice applicazione di certe regole standardizzate; che, anzi,
come problemi specifici, non sono neppure definibili una volta per tutte, ma che
sono piuttosto da considerarsi come tensioni permanenti, aperture e richieste di
senso rispetto all'esperienza, bisogni di significato che costituiscono, nella
loro stessa natura aporetica, l'essenza degli esseri umani i quali appunto si
formano in base al riconoscimento della loro finitudine e del mistero
dell'universo in cui si trovano a vivere.
Non sarà dunque la scienza a salvare l'umanità e a dare a essa un senso dopo
il lungo viaggio che l'ha portata alle soglie del terzo millennio. Questa
consapevolezza sembra talvolta dar luogo a un risveglio religioso che sconfina
in una confusa prolificazione di gruppuscoli e in una sorta di "sacro fatto in
casa" (si veda il mio Sacro e religioso - dalla religione di chiesa al sacro
fatto in casa, Di Renzo, Roma, 1998). Ma sarebbe ancora una volta una
soluzione illusoria quella che, inconsapevolmente, ricantasse i termini della
riconciliazione fra religione e scienza che già il vecchio Herbert Spencer,
ingenerosamente bollato da Nietzsche come "anima di latta", preconizzava e
auspicava come un incontro al buio. Religione e scienza si basano sul mistero,
osservava Spencer, teorico dell'inconoscibile, sul fatto che ignoriamo e forse
ignoreremo le cause prime dell'essere. Ignoramus. Ignorabimus. Questo
comune riconoscimento di una fondamentale ignoranza avrebbe dovuto costituire il
terreno di mediazione e di incontro. Un ragionamento analogo lo si trova nella
Sonata a Kreutzer di Lev Tolstoj. Ma sarebbe questa una soluzione a buon
mercato, un compromesso che potrebbe anche godere dell'appoggio delle religioni
positive, le quali dall'amministrazione in esclusiva del sacro ricavano i loro
mezzi di sussistenza, e di quegli scienziati che non hanno sufficiente coraggio
morale per pensare coerentemente i loro pensieri fino alla fine - un compromesso
che sarebbe più espressione di spirito bottegaio che di lungimiranza etica.
In base alla distinzione fra problemi tecnici, o funzionali, e problemi
umani, o tensioni permanenti, è forse possibile indicare una traccia, per quanto
labile e di non facile lettura, che salvaguardi l'involontarietà del pensiero in
un atteggiamento di attesa vigile, non passiva, consapevole che la salvezza, se
vi sarà salvezza, non sarà la resultante di programmi deliberati o di progetti
razionali nel senso della ragione strumentale. Nessuno, oggi, la può promettere
come esito certo. Solo un falso profeta potrebbe giungere a tanto. Ciò che
invece occorre è l'umiltà dell'attesa, il dono della grazia inaspettata. Occorre
mettersi dunque in viaggio, pur senza certezze prestabilite, senza prenotazioni
sicure, con tutto il carico di ansia e di angoscia che pesa sugli uomini di
oggi. L'esempio salvifico è quello di Emmaus. Ancora una volta, come nel caso di
Ruth, il mondo sarà salvato, se sarà salvato, dall'inaspettato, misterioso
apporto dello straniero. Accogli, dunque, sii paziente. Non lo scacciare, e
ascolta lo straniero. Nel suo gesto inatteso si nasconde la via della
salvezza. Emmaus. San Luca racconta l'episodio per disteso, senza essere
avaro di particolari. San Luca è medico. Come ogni buon diagnostico, pratica il
metodo clinico; coglie il frammento, lo interroga e lo collega
all'insieme.
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