Lawrence Lessig, The future of ideas. The fate of the commons in a connected world, New York, Random House, 2001 by Maria Chiara Pievatolo
In inglese il termine "free" significa sia "libero", per
esempio nel senso della libertà di parola, sia "gratuito", per esempio nel
senso di un pranzo gratis. Una democrazia che conviva con una economia fondata
sulla proprietà privata può promuovere la libertà di parola e, nello stesso
tempo, rifiutare la gratuità dei pranzi. Ma che cosa succederebbe se questa
stessa democrazia assimilasse la libertà nel suo significato politico e morale
alla gratuità, e prendesse a combattere ogni libertà come una lesione alla
proprietà privata? Potrebbe una democrazia sostenersi sul principio che la libertà è un furto?
L'autore di The Future of Ideas, Lawrence Lessig, non è un filosofo
politico, bensì uno studioso di diritto. Il suo testo si occupa di un problema
"tecnico": l'impatto sulla libertà, nella rete e sulla rete, dell'inasprimento
del regime della proprietà intellettuale e delle sanzioni destinate a proteggerla.
Chi si è rassegnato a vivere in una "gabbia d'acciaio" e a subire le decisioni
tecniche come incontrollabili ed estranee, o a scagliarsi genericamente contro
"la tecnica", può non essere consapevole del fatto che scelte tecniche determinate
condizionano il modo di condivisione e trasmissione del pensiero, e dunque
il mondo stesso della conoscenza. E', d'altra parte, difficilmente comprensibile
come una filosofia che non intenda più se stessa in quanto sapere in un orizzonte
universale ed eterno, bensì come presentazione di ciò che è attuale o alla
moda, possa essere indifferente a questioni tecniche - giuridiche e informatiche
- la cui soluzione può influenzare fortemente il futuro delle nostre idee
e delle nostre comunità politiche.
The Future of Ideas affronta quattro temi:
- la nozione di commons (bene collettivo) e la sua ratio entro un sistema che contiene forme di proprietà privata;
- la possibilità di intendere il mondo delle idee come soggetto a un regime di commons e la giustificabilità, entro tale prospettiva, della proprietà intellettuale;
- il carattere di commons dell'Internet originaria e l'architettura di rete che l'ha resa possibile come tale
- il processo di privatizzazione di questo commons a causa di un inasprimento senza precedenti del regime proprietario dell'informazione.
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1. Commons
Per commons si intende un bene detenuto in comune, per il godimento da parte di una quantità di persone: è dunque liberamente accessibile (free) per queste persone, nel senso che ciascuna ne ha titolo senza dover chiedere il permesso ad altri. Esempi di commons
possono essere le strade pubbliche, le idee e le teorie scientifiche nonché
i testi che sono diventati di pubblico dominio dopo la scadenza dei diritti
d'autore. In tutti questi casi non c'è nessun soggetto che abbia titolo ad
esercitare una componente fondamentale del diritto di proprietà, cioè stabilire
se e come rendere la risorsa disponibile ad altri.
La tradizione ha riconosciuto come commons sia risorse il cui uso non è competitivo, sia risorse soggette a un uso competitivo. Una teoria scientifica è un commons
non competitivo, perché chiunque può apprenderla senza che nessun altro
sia depauperato nel suo patrimonio di conoscenze. Una strada o un pascolo
sono commons competitivi, perché un loro uso incontrollato li deteriora
e li impoverisce: la strada può essere congestionata da ingorghi, il pascolo
può esaurirsi se ciascun pastore persegue la strategia, razionale rispetto
all'utilità individuale, di aumentare il più possibile il numero di capi
del suo gregge, che si nutre sul terreno comune. Tuttavia, il carattere
competitivo dell'uso di una risorsa non è di per sé un motivo sufficiente
ad escluderla dal novero delle cose che possono entrare in un regime di commons
, dal momento che le comunità possono adottare regole che governino l'uso
di un bene collettivo. La competitività o no dell'uso di un bene, invece,
fa sì che siano diversi i problemi derivanti, per la società, dal suo carattere
collettivo:
- se il bene non è competitivo, si pone solo il problema di come incentivarne la produzione
- se il bene è competitivo, si aggiunge a questo il problema di regolare la distribuzione del suo consumo (pp. 19-23).
Perché una società che non mette in discussione
la proprietà privata dovrebbe permettere che alcune risorse rimangano in
un regime di commons? In un'epoca in cui si tende
a dare per scontato che il mondo sia amministrato nel modo migliore se viene
suddiviso fra proprietari privati, una sorta di cecità culturale fa dimenticare
che la tradizione giuridica statunitense giustifica i commons quando
le risorse sono fisicamente esposte ad essere monopolizzate e quando l'essere
usate da un numero indefinito e illimitato di persone non diminuisce, bensì
aumenta il loro valore. Per esempio una strada su cui si possono affacciare
negozi e affiggere manifesti con la certezza che saranno visti da moltissimi
passanti, è valorizzata dal fatto di essere pubblica (pp. 86-87). Se la strada
appartenesse a un privato il quale limitasse la circolazione a suo arbitrio,
l'accessibilità a negozi e manifesti verrebbe meno e si perderebbe, così,
gran parte del suo valore - che dipende, in questo caso, dal semplice fatto
di essere frequentata e liberamente percorribile.
Da questo argomento, Lessig desume un principio generale:
quando l'uso di un bene è poco chiaro, nel senso che non è connesso univocamente
a un fine, allora, da una prospettiva sociale, può essere preferibile trattarlo
come collettivo, perché sia esposto alla sperimentazione di un gran numero
di ingegni. In questo caso, infatti, un proprietario vincolerebbe
il bene, con tutte le sue potenzialità ignote, al suo limitato intendimento
e al suo interesse privato. Se invece l'uso di una risorsa è chiaro, il nostro
obiettivo è semplicemente assicurarne la disponibilità per l'uso maggiore
e migliore: in questo caso, conviene affidarla a un proprietario, interessato
a massimizzare il reddito che ne ricava (pp. 88-89). Lessig, in virtù
della sua nazionalità e della professione, presenta questo argomento in un
ambito particolare, quello della rete: in questo caso è chiaro che la sua
pubblicità l'ha resa aperta ad usi imprevedibili ai suoi progettisti originari,
come la pubblicazione distribuita del World Wide Web. Ma, da un
punto di vista filosofico, il principio di Lessig può indurre a chiedere
se esistano davvero beni che "hanno" un uso "chiaro", come se la loro finalità
fosse scritta, per così dire, nella loro carta di identità - se non diamo
indebitamente per scontato un orizzonte di valori e di tecnologie condivise.
Per esempio, l'uso industriale del codice genetico e dunque il suo carattere
proprietario è "chiaro" per le multinazionali statunitensi, ma assai meno
per chi lo contesta - tanto che la
soluzione del problema della sua destinazione richiederebbe una più profonda
riflessione filosofica e politica. Se è solo lo stato dell'arte e la sua
percezione sociale a giustificare la proprietà privata di un bene, allora
ogni forma di proprietà privata va intesa come provvisoria e, potenzialmente,
residuale. Giustificare la proprietà privata come caso residuale e
provvisorio, in relazione allo stato dell'arte e alle scelte politiche, significa
spostarsi da una prospettiva lockeana a una prospettiva platonica. Locke
legittima la proprietà privata sulla base dell'acquisizione con il lavoro,
il quale dunque dà titolo a fare scelte sovrane anche sull'uso della risorsa.
Platone, nella Repubblica, la tratta come qualcosa di circoscritto
a un solo gruppo, quello degli "artigiani" e la giustifica sulla base della
specializzazione tecnica e della funzionalità sociale, tenendola fuori da
tutto ciò che ha a che vedere con la politica e con la conoscenza. Passare
dalla tradizione liberale di Locke all'egemonia filosofica di Platone sarebbe
una rivoluzione di non piccolo momento - se la nostra tradizione fosse esclusivamente
liberale, e non anche democratica.
La tradizione democratica è il terreno più solido per opporsi al sistema del controllo proprietario:
Perché non vendiamo
semplicemente il diritto di governare al miglior offerente? (I cinici diranno
che in effetti lo abbiamo sempre fatto. Forse, ma sto parlando formalmente)
Perché non abbiamo un sistema in cui mettiamo all'asta il diritto di controllare
il governo come diritto di proprietà permanente? (p. 82)
Lessig risponde prendendo ispirazione da Spheres of Justice,
di Michael Walzer: nella "nostra" società i contanti non sono l'unico valore,
ma ne esistono anche altri diversi e indipendenti - come l'autogoverno democratico.
Questo, per il momento, può essere un argomento politicamente convincente.
il suo solo limite, dal punto di vista speculativo, è la sua provvisorietà:
Walzer, in Spheres of Justice, sceglie esplicitamente di "restare nella caverna
", interpretando i significati che tutti hanno in comune. Ma lo ombre - cioè
le intuizioni condivise - sono molto mutevoli, soprattutto se a controllare
le proiezioni ci sono le grandi concentrazioni mediatiche e i potentissimi
sostenitori di una destinazione proprietaria dell'informazione di cui lo
stesso Lessig parla con grande preoccupazione (pp. 117-119).
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2. Il mondo delle idee
Secondo Lessig, ci sono buone ragioni per mantenere alcuni tipi di beni in un regime di commons
. Il carattere collettivo si addice in modo paradigmatico alle entità del
mondo delle idee. Lo scrisse molto chiaramente Jefferson, in armonia con
la tradizione dell'Illuminismo, in una lettera a Isaac MacPherson del 13 agosto 1813
: le idee sono di proprietà esclusiva di chi le ha pensate solo finché non
le rivela in pubblico. Ma, una volta rese pubbliche, possono essere possedute
da tutti, senza privare di nulla il loro primo autore.
"Chi riceve un'idea da me, riceve egli stesso istruzione senza diminuire
la mia; come chi accende il suo lume al mio riceve luce senza oscurare me."
Per questo, le idee devono diffondersi liberamente nel mondo, per istruire
e migliorare gli uomini, e le invenzioni non possono essere soggette a proprietà
privata (pp. 94-95).
In questo spirito, la costituzione americana
permette solo una forma limitata di proprietà intellettuale "To promote
the progress of science and useful arts, by securing for limited times to
authors and inventors the exclusive right to their respective writings and
discoveries" (a1.Section 8). Il periodo di validità della proprietà intellettuale
è limitato, perché le idee appartengono, per loro natura, al pubblico: diritti
esclusivi temporanei possono essere giustificati solo limitatamente al fine
di incentivare gli autori alla produzione creativa (p. 97).
La prima legge americana sul copyright lo attribuiva agli autori
di "mappe, carte e libri", ma solo a condizione che facessero una registrazione
presso un ufficio apposito. Il copyright durava originariamente
quattordici anni, ed era rinnovabile ad altri quattordici solo se l'autore,
ancora vivo, ne avesse fatto esplicita richiesta. Traduzioni e opere derivate
erano libere e l'onere della registrazione faceva sì che molte opere fossero
fuori copyright semplicemente perché l'autore aveva preferito non sottoporvisi. Oggi il copyright
, negli Stati Uniti, è automatico, dura per settanta anni dalla morte dell'autore,
e si estende su ogni atto creativo prodotto su un medium tangibile
e anche su traduzioni ed opere derivate (pp. 105-107). Sono fuori dalla sua
portata solo i fatti storici e il cosiddetto fair use, che comporta
la possibilità di citare piccole parti del lavoro a fini didattici e scientifici
(pp. 104-109). Il controllo proprietario sull'informazione non è mai stato
così aspro e intenso.
Lessig ritiene che l'attuale legislazione sul copyright sia incostituzionale: la ratio costituzionale del copyright
è incentivare economicamente gli autori alla produttività. Ma è ridicolo
pensare che qualcuno scriva un libro, oggi, solo perché e se ha la garanzia
che qualche sconosciuto del XXII secolo ne potrà trarre guadagno (p. 252).
Il vero, ancorché incostituzionale, motivo dell'estensione è l'interesse
al controllo e allo sfruttamento industriale dell'informazione (p. 107).
Il controllo dell'informazione per il suo sfruttamento industriale
è un incentivo alla creatività? Se consideriamo che ogni nuova idea si fonda
sul confronto con le idee altrui e che per questo nessuna idea è veramente
e completamente nuova (p. 204), possiamo sospettare che
il controllo proprietario, in quanto limita l'accesso, la distribuzione e
l'uso di informazione, impoverisca il mondo delle idee, pur
arricchendo una piccola minoranza. Le idee non si consumano ad essere pensate
e divulgate; si esauriscono, piuttosto, se vengono tenute nascoste e censurate
- per motivi politici o anche economici.
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3. La rete come commons
Secondo il giurista e teorico della comunicazione Y. Benkler, un sistema di comunicazione può essere pensato come suddiviso in tre strati o layers:
- lo strato fisico: il mezzo fisico su cui la comunicazione viaggia (nel caso della rete, i cavi e i calcolatori)
- lo strato logico o del codice: il codice che fa funzionare gli
strumenti fisici (nel caso della rete, i protocolli e i programmi che ci
permettono di usarli)
- lo strato del contenuto
Ciascuno di questi tre strati può essere libero o controllato. Si va così dallo Speakers' Corner
, ove tutti gli strati sono liberi, fino alla TV via cavo, ove sono tutti
controllati, passando per il modello dell'auditorium, ove è soggetto a controllo
solo l'accesso fisico, e per quello del telefono, ove solo i contenuti sono
liberi (pp. 23-24). L'Internet, come l'abbiamo conosciuta finora, è controllata
nello strato fisico e, per lo più, nello strato del contenuto, ma il suo
codice è libero.
Negli anni '60 dello scorso secolo ci si rese conto che il sistema
telefonico stutunitense non avrebbe potuto resistere a un attacco nucleare,
perché era centralizzato e privo di metodi di ridondanza efficaci. Si cominciò
allora a pensare a un tipo di interconnessione diversa, a pacchetti anziché
a circuito. Il circuito comporta una connessione univoca fra un punto e un
altro, dalla quale dipende interamente la possibilità della comunicazione.
I pacchetti permettono di dividere ciò che deve essere trasmesso in una serie
di frammenti, ciascuno dei quali fluisce indipendentemente attraverso percorsi
in una rete, per ricongiungersi agli altri solo al punto di arrivo (p. 31).
Ma l'aspetto decisivo è il luogo in cui, nella rete, si colloca l'"intelligenza",
ovvero l'elaborazione dell'informazione. Pensiamo, per chiarezza, a un arcaico
sistema telefonico a commutazione meccanica manuale. In questo sistema, se
voglio raggiungere, da Pisa, un apparecchio di Livorno, devo chiamare il
centralino, ove la telefonista mi mette in contatto coll'abbonato richiesto.
L'intelligenza - ciò che è in grado di indirizzare il mio messaggio proprio
dove desidero che vada - è nella mente e nella mano della telefonista, che
decifra la mia richiesta e mi connette correttamente, è, cioè, "nella" rete
telefonica, al suo centro. Per mettere fuori uso un simile sistema, è sufficiente
bloccare la telefonista.
In Internet le cose non stanno così: la sua struttura end-to-end
fa sì che l'elaborazione dell'informazione non sia posta nel cuore della
rete, ma alle sue periferie. Se la rete è "stupida" ma ogni terminale è in
grado di fare da "telefonista" di se stesso, la comunicazione diventerà difficile
o impossibile solo quando una parte rilevante dei cavi e dei terminali sarà
stata messa fuori uso. I nodi intermedi nella rete, in questo caso, svolgono
solo funzioni semplici, con protocolli semplici e di pubblico dominio, mentre
le operazioni conplesse sono riservate ai terminali (p. 34). Fra le
architetture dei due sistemi c'è una differenza non solo tecnica, ma anche
politica, se è vero, come dice Mitch Kapor, cofondatore della Electronic Frontier Foundation, che "l'architettura è politica
" (p. 35): la telefonista del nostro esempio - o, più realisticamente, una
concentrazione mediatica che occupa una analoga posizione strategica -, ha
il pregio di essere "intelligente". Ma potrebbe anche essere, proprio in
virtù di questo suo pregio e della sua funzione, avida, invadente, pettegola,
censoria. Potrebbe per esempio raccontare tutte le nostre telefonate alla
polizia, oppure intercalarle con slogan pubblicitari, oppure proibirci di
leggere al telefono un brano sotto copyright, o rifiutarsi di collegare
numeri pisani a numeri livornesi per sue personali questioni di campanile.
Di contro, in Internet, tutti possono usare il protocollo della rete, che
è di pubblico dominio, tutti, dunque, essendo telefonisti di se stessi, possono
elaborare l'informazione come vogliono, spedirla dove e come vogliono, e,
soprattutto, far interagire con la rete i programmi che preferiscono. Come
spiega molto chiaramente la RFC 1958:
"the goal is connectivity, the tool is the Internet Protocol, and the intelligence
is end to end rather than hidden in the network".
Questo fa sì che Internet sia un ambiente molto favorevole all'innovazione:
- poiché i programmi
girano su calcolatori alla periferia della rete, innovatori con nuovi programmi
non devono far altro che connettere i computer alla rete per farli funzionare,
senza aver bisogno di mutamenti - e dei relativi permessi - entro la struttura
della rete;
-
poiché l'architettura non è ottimizzata per nessuna applicazione particolare,
la rete è aperta a innovazioni per le quali non era stata originariamente
pensata;
- per il suo carattere di piattaforma neutrale, la rete non può discriminare i progetti innovativi (pp. 36-37).
Il codice che in rete assicura la connettività, il TCP/IP, è libero: ciò significa che questo ambito può essere inteso come un commons aperto, il quale aumenta il valore dello spazio controllato che si interfaccia con essa
(p.48): un computer, oggetto di proprietà privata, una volta connesso in
rete, diventa uno strumento molto più interessante e ricco di possibilità.
E, contrariamente a quando si tende a credere, il carattere di commons
non fa della rete un ambiente sregolato, esposto all'abuso e dunque all'impoverimento:
ci sono regole consuetudinarie, come quelle che proibiscono lo spamming
su Usenet e altrove, ma, soprattutto, e tipicamente, la tecnologia è in
grado di governare l'uso delle risorse comuni in modo tale da non esaurirle
(p. 96) e, anzi, da incentivarne l'accrescimento. Per esempio, un libro cartaceo
in una biblioteca pubblica deve essere letto a turno ed è esposto all'usura,
mentre un documento digitalizzato e messo in rete è indefinitamente copiabile.
Un chiaro esempio di bene valorizzato dal suo statuto di commons è il software libero protetto da licenza GNU-GPL . Questo tipo di licenza garantisce la libertà del software in questi quattro sensi:
- il software è liberamente eseguibile
- il software può essere liberamente studiato e rielaborato per le proprie esigenze, e dunque il codice sorgente deve essere liberamente disponibile
- il software può essere liberamente copiato e distribuito
- il programma può essere migliorato e i suoi miglioramenti sono liberamente distribuibili
La conservazione di questa libertà richiede che venga impedita la "privatizzazione" del codice, che avrebbe luogo se qualcuno si impadronisse di un programma, lo compilasse e lo distribuisse come software proprietario, sottraendolo alla pubblicità. Questo sarebbe inevitabile se il software libero non fosse un bene collettivo, ma una res nullius
, esposta alla acquisizione da parte di chiunque. La licenza GNU-GPL si vale
di una combinazione fra diritto d'autore e diritto contrattuale, per obbligare
chi ridistribuisce il software protetto, originale o modificato, a passarlo
ad altri con le medesime garanzie di libertà con cui l'ha ricevuto. Il software
libero protetto dalla GPL rimane nell'ambito della pubblicità, che è vantaggiosa
sia per chi lo scrive, sia per chi lo usa. Chi lo scrive può contare sulla
cooperazione di una comunità non concorrenziale di sviluppatori, che fa immediatamente
circolare ogni scoperta di difetti e di possibili miglioramenti; chi lo usa,
proprio per questo motivo, non rimane ostaggio degli errori di programmazione
e del codice strategico eventualmente inserito a servizio degli interessi
del produttore. Se la Microsoft non avesse controllato il suo codice, non
avrebbe potuto attuare la strategia di incorporare Internet Explorer in Windows: sarebbero subito fiorite altre versioni del sistema prive dell'ingombrante browser
(pp. 54-67) e niente avrebbe potuto obbligare gli utenti ad accettare sul
proprio computer un programma non desiderato. Chi, infine, vende hardware trae vantaggio dal carattere di commons del codice, perché può rendere più appetibili e meno costose le sue macchine con del software
meno costoso, autonomamente innovabile, e sostanzialmente migliore, perché
sviluppato e discusso in maniera trasparente. La discussione si svolge nell'ambito
che Kant avrebbe detto dell'uso pubblico della ragione, le cui dimensioni, grazie all'interconnessione, sono divenute virtualmente cosmopolitiche. Il software, esattamente come la filosofia, è conoscenza e informazione.
Come scrive Alan Cox, difendendo Linux ed il valore del software libero contro un attacco della Microsoft:
I grandi salti dell'età del computer hanno avuto luogo, in maggioranza, a dispetto piuttosto che in virtù dei diritti di proprietà intellettuale
. Prima dell'Internet i protocolli di rete proprietari dividevano i clienti,
li rinchiudevano negli spazi dei loro fornitori, e li costringevano a scambiare
la maggior parte dei dati su nastro. Il potere della rete non fu sprigionato
dai diritti di proprietà intellettuale. Fu sprigionato dalla libera e aperta
innovazione condivisa fra tutti (p. 57).
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4. I padroni del discorso
Internet è cresciuta grazie alla libertà dell'informazione nello strato
del codice, che l'ha trasformata in un ambito aperto a un uso pubblico della
ragione virtualmente cosmopolitico. Abbiamo a che fare con un commons
di nuovo genere, in controtendenza rispetto allo spirito dei tempi e al loro
intendere le persone e i diritti sulla base del paradigma della proprietà
privata. Per questo, lo scontro con le concentrazioni mediatiche che traggono
lucro dalla proprietà intellettuale appare inevitabile.
Prima e fuori dalla rete, si potevano registrare dischi, prestare libri, esporre poster senza preoccuparsi del copyright
, sia perché alcune di queste attività sono perfettamente lecite, sia perché
le eventuali violazioni sono difficilmente controllabili, in quanto richiederebbero
una sorveglianza capillare nella sfera privata di un gran numero di persone.
Ma se trasformo la musica di un CD che ho comprato in MP3, o digitalizzo
un libro che mi è piaciuto, o riproduco un articolo che ho letto e che vorrei sottoporre a discussione, e li metto su una pagina web
per condividerli con i miei amici, la situazione sembra diversa, anche se
non sto facendo nulla di diverso: io divento una violatrice del diritto d'autore.
E' vero - dice Lessig - che alla mia pagina potrebbero accedere milioni di
persone, ma la pubblicazione sul web è talmente polverizzata che
la possibilità reale che questo avvenga è molto scarsa. Probabilmente, le
persone che visitano la mia pagina non sono di più di quelli che prendono
in prestito i miei libri cartacei. Ma la pagina web è molto più controllabile, tramite bots e programmi che scansionano la rete alla ricerca di materiale sotto copyright: il cyberspazio non diminuisce, bensì aumenta il potere dei detentori dei diritti (pp. 181-182).
Lessig racconta il caso di OLGA
, un archivio di spartiti di musica per chitarra messo insieme con i contributi
degli appassionati, senza fine di lucro, e ripetutamente costretto a chiudere
a causa delle minacce di grandi case discografiche, che accampavano generiche
accuse di violazione del diritto d'autore. I provider sono di solito molto
veloci a cancellare i siti che vengono fatti oggetto di accuse di questo
genere - e quasi sempre i contendenti sono un singolo, da una parte, e una
multinazionale, dalll'altra -. "Il controllo del copyright [è] fuori
controllo" (p. 183). Questo ha delle conseguenze politiche e culturali efficacemente
illustrate dalla casistica presentata da Lessig.
CPHack: Cyber Patrol è un programma della famiglia dei cosiddetti censorware
, che bloccano selettivamente l'accesso a siti web il cui contenuto è ritenuto
non adatto a minori. Spesso, la selezione operata da questi programmi è stata
considerata discutibile, perché è capitato che fra i siti bloccati ci fossero
pagine del tutto innocenti, o ree solo di opporsi alla tecnologia del censorware, o connesse ad opinioni politiche sgradite ai produttori dei programmi stessi. Nel 1999 uno svedese e un canadese produssero CPHack
, un programma posto originariamente sotto licenza GPL, che permetteva di
disattivare Cyber Patrol e di identificare l'elenco dei siti che bloccava.
Questo avrebbe esposto la Mattel, che distribuiva Cyber Patrol, a critiche e proteste
da parte di coloro che si fossero sentiti arbitrariamente censurati. Ne
seguì una controversia legale che si concluse solo grazie a una mossa extragiudiziale:
la Mattel indusse gli autori a venderle il diritti di CPHack e a negare che
il codice fosse sotto GPL, e riuscì conseguentemente a ottenere dal giudice
una ingiunzione a non pubblicare il codice e a non linkare siti che lo pubblicassero
- neanche allo scopo di criticare le scelte dell'azienda. Il copyright è "divenuto uno strumento per rendere impossibile la critica ad una azienda.
Dei programmatori possono distribuire codice che censura la rete, e i tentativi
di distribuire la lista dei censori sono censurati dalla legge." (pp. 184-187)
DeCSS: nel 1998 Il Congresso degli Stati Uniti approvò il Digital Millennium Copyright Act, che reca, fra vari inasprimenti del diritto d'autore, una disposizione antielusione (anticircumvention). Questa disposizione probisce sia di decriptare (crack) il codice che protegge materiale sotto copyright, sia di produrre programmi destinati a decriptare detto codice. Se trattiamo il materiale sotto copyright
sulla base di una stretta analogia con un oggetto fisico di proprietà privata,
questa disposizione può assere assimilata ad un divieto sia di disattivare
direttamente gli antifurto, sia, indirettamente, di produrre strumenti che
li disattivino. Ma questa analogia, osserva Lessig, non si può applicare
meccanicamente all'informazione, che per la Costituzione americana è essenzialmente
libera e di pubblico dominio, tanto che il tempo di durata del copyright è inteso come limitato ed è riconosciuta la possibilità del fair use
. Quindi la legge non può tutelare strumenti finalizzati a sottrarre per
sempre l'informazione al dominio pubblico, o a negare il fair use (pp. 187-188). Al di là dei tecnicismi giuridici locali, il cuore dell'argomento di Lessig è questo: possiamo trattare il copyright
come identico alla proprietà privata solo se decidiamo di trattare le idee
come oggetti fisici. Questo ci autorizza a considerare ogni uso non esplicitamente
permesso dal detentore del copyright come un furto, ma
ci proibisce anche, conseguentemente, di "usare" le idee per discuterle,
insegnarle o criticarle senza l'autorizzazione del loro "proprietario".
Nel 1994 le case cinematografiche di Hollywood cominciarono a distribuire
film su dischi DVD. Questi DVD furono protetti con un metodo di cifratura
detto Content Scramble System (CSS), che rende difficile all'utente
vedere il film, a meno che non usi un dispositivo in grado di decodificare
le routine CSS. Furono messi sul mercato dei riproduttori DVD, i cui produttori
avevano ricevuto la licenza per decodificare i DVD protetti da CSS. Ma questa
licenza fu inizialmente data solo a macchine compatibili con i sistemi Windows
e Macintosh. Il CSS, d'altra parte, non impediva la copia fisica del
disco DVD, ma limitava solo il novero dei computer su cui era possibile vedere
i film. Per rendere accessibili i DVD a un altro diffuso sistema operativo,
Linux, si escogitò un codice open source detto DeCSS
, che disabilita il sistema di cifratura CSS e rende possibile riprodurli
su macchine prive di licenza. Il DeCSS non rende la copia più facile: mostra
semplicemente l'inadeguatezza del sistema di cifratura adottato e permette
di riprodurre DVD, presumibilmente acquistati in modo legittimo, su macchine
con sistemi diversi da Windows e Macintosh.
Ma Hollywood scatenò i suoi avvocati, e mise addirittura in questione il diritto di fare link
diretti ed indiretti a pagine col DeCSS, per quanto non sia stato esibito
nessun caso in cui il DeCSS sia stato usato per produrre copie pirata di
film. La corte di New York, in primo grado, gli diede ragione: il DeCSS e
i link a siti con il DeCSS non vanno trattati come informazione e conoscenza la cui libertà deve essere tutelata, ma come meri espedienti tecnici per "derubare" il detentore dei diritti (pp. 189-190).
iCraveTV
era un sito canadese che ritrasmetteva in rete programmi televisivi. In
Canada una simile operazione non è illecita, a condizione che il programma
ritrasmesso rimanga inalterato; negli Stati Uniti, invece, è richiesto il
permesso del trasmettitore originale. iCraveTV si trovava fisicamente in
Canada, ma era visibile, essendo in rete, anche ai cittadini americani. Questo
espose iCraveTV ad una azione legale: le fu chiesto di impedire l'accesso
ai cittadini americani o di chiudere. iCraveTV preferì ubbidire, invece di
rilevare che la legge americana non era vincolante in Canada. Se il governo
cinese - o anche un tribunale francese, come è effettivamente avvenuto - pretendesse il blocco di China Online
per tutti i cittadini cinesi, perché i suoi contenuti sono censurabili per
la legge cinese, questa pretesa verrebbe trattata come una posizione autoritaria,
giuridicamente infondata, e contraria alla stessa dimensione cosmopolitica
della rete. Ma, osserva Lessig, quando si tratta di copyright, noi
diventiamo come i cinesi. E chiediamo tecnologie che facilitino il controllo
locale, tracciando confini nel mondo delle idee (pp. 190-192).
In The Future of Ideas sono presentati molti altri casi in cui il diritto d'autore e il sistema dei brevetti
ha messo a repentaglio la creatività, l'innovazione e la libertà di parola.
Sono inoltre trattate delle possibili soluzioni per ridurre la proprietà
intellettuale al suo fine originario: la tutela non tanto degli interessi
monopolistici delle aziende, quanto del lavoro e della creatività dei singoli.
Lessig suggerisce, per esempio, la limitazione del diritto d'autore a cinque
anni, con la possibilità di rinnovarlo su richiesta, per un medesimo periodo,
solo per altre quindici volte, e discute anche la distinzione, in relazione
alla tutela, fra uso commerciale e uso non commerciale. Propone inoltre di
trasformare almeno una parte dello spettro ora suddiviso dallo stato fra
concessioni radiofoniche e televisive in un commons aperto alla libera sperimentazione (pp. 240-261).
Simili problemi appartengono alla quotidianità di chi lavora in rete
ed ha avuto modo di imparare che questo complesso intreccio di questioni
tecniche e giuridiche, in quanto insiste sul mondo delle idee, produce anche
una politica e una economia della conoscenza che merita di essere oggetto
di riflessione al di là degli ambiti settoriali. Ci troviamo infatti di fronte
alla possibilità di venir messi a tacere non più dai poteri censori di uno
stato, ma dai poteri e dagli interessi privilegiati di concentrazioni economiche.
I fondamenti teorici che stanno alla base di questa possibilità meriterebbero
di venir messi in discussione nei loro presupposti e nelle loro eventuali
incoerenze. La democrazia liberale ha insegnato a temere la censura dello
stato, in nome della libertà della sfera pubblica, e a proteggere i poteri
aziendali, in nome della libertà della sfera privata. Ma se i poteri aziendali invadono la sfera pubblica con le armi del copyright
, dei brevetti e del controllo della rete e dello spettro, perché dovremmo
considerare odiosi e tirannici i censori statali, e non invece, e di più,
questi nuovi e inusitati padroni del discorso? Perché dovremmo
ribellarci alla censura politica e ideologica e accettare, invece, la censura
economica - come se una simile censura, una volta privatizzata la materia
prima della pubblicità, non fosse per ciò stesso anche politica?
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