PRODURRE SENSO SOCIALE NELL'ETA' DIGITALE by Redazione Decoder
Tratto da DECODER #11
Sono successe molte cose in questo anno
e mezzo, tra l'uscita di "Decoder 10" e questo
numero. Molte cose che riguardano il mondo delle
telecomunicazioni, che è balzato esponenzialmente alla
ribalta di interessi sempre maggiori e forse
incontrollabili da parte di soggetti
"antagonisti" come noi. Da un punto di vista
strutturale questi avvenimenti sono: l'esplosione di
Internet, e oggi di Intranet ed Extranet; il caso dei
net-computer della Oracle e l'esplosione di un nuovo
media (con tutte le caratteristiche antropologiche del
caso) a metà strada tra televisione e computer; la crisi
e i tentativi di rilancio della Apple; una sempre
maggiore egemonia mondiale di Microsoft; il caso
Netscape, il crash dell'Olivetti; il passaggio verso la
liberalizzazione del mercato della telefonia con
conseguente offerta da parte delle corporation tv.
Mentre dal punto di vista delle regole, osserviamo con
malcelata diffidenza: il sempre maggior ricorso al ruolo
arbitrale di figure quali quelle dei garanti; la vittoria
politica della Siae e il restringimento degli spazi di
autoproduzione, soprattutto in ambito musicale; la
risibile legge sulla protezione dei dati.
A tutto questo grande movimento di ordine strutturale,
che vede proiettare, su grandi scenari, interessi
compositi, che promettono di rilanciare l'espansione del
capitale su ordini di grandezza planetaria, corrisponde
dal punto di vista "antagonista" una situazione
di difficoltoso dibattito teorico, con poche intuizioni e
molte pastoie "ideologiche" provenienti dal
trapassato remoto della storia del movimento operaio. Nel
dire questo, il chiaro riferimento è all'abortita
discussione relativamente all'impresa sociale, mentre, al
contrario, stimolante appare la riflessione che emerge
dal movimento zapatista che, al contrario di talune
iniziali frettolose interpretazioni, si segnala come un
fenomeno di affermazione di democrazia radicale, adeguato
ai tempi, e con una chiara comprensione deleuziana di
rifiuto del potere e individuazione di una strategia
nomadica di resistenza politico-culturale.
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L'IDEOLOGIA
DELLA PRIVATIZZAZIONE
In un periodo di grande trasformazione degli scenari
di sviluppo capitalisti, emerge abbastanza chiaro il
fulcro di questa offensiva che, oltre a essere
strutturale, è anche un fenomeno caratterizzato da
aspetti di carattere ideologico. Tre sono i punti intorno
ai quali, da circa quindici anni, il capitale si sta
riorganizzando: privatizzazione, deregulation e nuova
centralità dell'impresa, assurta a un protagonismo
politico-economico di segno inedito.
L'assunzione del neoliberalismo come nuovo cardine
ideologico della trasformazione in atto, prevede anche
conseguenti modifiche normative che, a vario titolo,
riguardano fin da subito tutti i paesi maggiormente
industrializzati. Pensiamo in questo senso allo
straordinario episodio offerto dal caso sudcoreano, dove
si vuole per legge trasformare i rapporti giuridici di
produzione fordisti in rapporti di tipo flessibile e
postfordisti. Oppure al caso thailandese (un dollaro e
mezzo al giorno per una giornata di lavoro di 10 ore), o
alla questione delle maquiladoras messicane, poste
al confine del New Mexico statunitense (evidente esito
del Nafta,) o anche al caso della modifica della carta
costituzionale italiana, a gran voce richiesta dal sempre
più sparuto gruppo ruotante intorno al "figlio
d'arte" Mariotto (?) Segni, che chiede di introdurre
nella prima parte della Costituzione il chiaro ed
esplicito richiamo al valore del mercato e della libertà
dell'impresa economica, cancellando quello sul lavoro.
Ma, come dicevamo, la liberalizzazione è anche
un'ideologia che, se da una parte ha acquisito una sua
ragione di essere, sia per gli evidenti sprechi di una
parte delle imprese a suo tempo gestite dallo stato sia
per le estenuanti lungaggini dell'apparato burocratico
(ormai insopportabili per dei soggetti sociali
postfordisti, che hanno nella gestione del
"tempo" la propria vertenza esistenziale
maggiore), dall'altro è un'ideologia che nasconde alcuni
importanti dati di fatto. Uno di questi ruota sul fatto
anche che, al contrario di quel che si racconta, è
possibile gestire certe attività dello stato in maniera
efficiente (vedi il caso francese) e inoltre che lo stato
ha bonificato e sanato aziende, oltre ad aver sprecato,
come è successo negli anni scorsi a proposito del
settore agro-alimentare italiano.
Ma infine, e non per questo ultimo, lo stato può
agire e talvolta ha agito in funzione della
rappresentanza degli interessi dei più deboli e
soprattutto di interessi sociali condivisi. In una fase
come questa che prevede nella propria agenda politica al
primo posto la riconfigurazione (leggi downsizing)
del welfare state, il fatto che vi siano dei diritti
sociali specifici della nuova epoca digitale non appare
privo di significato.
La questione è che nella nuova fase appare cruciale
la difesa e la rappresentanza di questi nuovi interessi,
legati al nodo del sapere e al lavoro come skill
professionale.
In realtà ci troviamo come in una sorta di passaggio
tra Scilla e Cariddi. Da una parte lo stato, entità
depotenziata dal punto di vista ideologico dal liberismo,
trova difficoltà a mantenere le proprie posizioni di
"occupazione" della società. In questo senso
un ruolo importante viene rivestito anche dal personale
politico, che appare fortemente inadeguato rispetto a
trasformazioni tecnologiche di cui non percepisce il
senso complessivo.
Dall'altra i movimenti che, soprattutto sulle
questioni relative ai diritti digitali, hanno una
visibilità ben minore rispetto a quanto sarebbe
necessario, anche per le caratteristiche sinusoidali del
loro impegno e localizzazione (soprattutto negli Usa).
Nel frattempo però la liberalizzazione procede col
suo corso inarrestabile e, guarda caso, va a riguardare
anche il sistema stesso delle telecomunicazioni.
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... E SE
LATITA LA POLITICA SUL MERCATO?
Il primo grande problema, che apre scenari importanti
nei prossimi mesi è quello relativo alla privatizzazione
dei servizi di telecomunicazione. La tesi principale,
brandita davanti all'utenza e avvalorata anche dal
Garante dell'Antitrust, è che la scomparsa del gestore
pubblico possa di per sé produrre un abbassamento
generalizzato delle tariffe, grazie ai meccanismi della
concorrenza che verrebbe a stabilirsi tra i diversi
fornitori.
Questa argomentazione non convince per una serie di
ragioni. Innanzitutto perché privatizzare significa solo
passare da un monopolista a controllo pubblico a un
monopolista a controllo privato, il che rende lo scenario
ancor più pericoloso. Ma anche la liberalizzazione, se
non viene accompagnata a misure in grado di garantire a
tutti gli operatori l'accesso a costi ridotti alle
infrastrutture essenziali e a un rigoroso controllo sulla
formazione di oligopoli, non significa automaticamente
apertura del mercato a fornitori plurimi, ma al più a un
pugno di attori che, come per i derivati petroliferi,
immediatamente dopo una prima fase di relativa
concorrenza, raggiungerebbero facilmente un accordo
generalizzato su tariffe e servizi.
Secondo, non è vero, che monopolio voglia
necessariamente dire prezzi alti e servizio scarso.
Difatti molti Pto (Public telephone operator) sono
Internet provider e forniscono accesso anche al di fuori
dei propri confini (Finlandia) e al costo di una
telefonata urbana (Bt, Ft, Dt). In Germania il 25%
dell'utenza è Isdn e c'è una profonda integrazione con
la linea analogica: in Germania sono avanti di 15 anni
"nonostante" il monopolio.
Negli Usa per lo stesso servizio in aree geografiche
diverse si possono pagare tariffe diverse. Questo
conferma che l'abbassamento delle tariffe per tutti è
una chimera, ma sarà discrezionale in base alle aree
geografiche e al tipo di utenza e servizi "a valore
aggiunto" richiesti.
Come garantire allora a qualsiasi cittadino europeo, a
prescindere dal suo livello di vita e dal luogo di
residenza, un accesso garantito a prezzi
"calmierati" ai moderni servizi di
telecomunicazioni? Come garantire soprattutto un servizio
universale?
Pur ideologicamente travolti dalla deregulation
bisogna ribadire il criterio di accesso garantito ai
servizi a un costo abbordabile e con prestazioni di buon
livello. Per ottenere ciò bisogna definire un paniere di
servizi i cui prezzi devono essere controllati nelle
diverse regioni d'Europa, per arrivare alla creazione di
un fondo di sostegno al servizio universale,
finanziato con un canone aggiuntivo sulle attività
commerciali svolte sulla rete, come onere imposto ai
gestori, siano essi pubblici o privati.
Come si pensa invece di espletare un servizio
universale in una fase di liberalizzazione? Già si parla
di adeguare le tariffe per quelle utenze con traffico
sporadico o concentrato in certi periodi dell'anno, che
costringono il gestore al sovradimensionamento delle
strutture, in Italia calcolato in dieci milioni di utenti
su circa trenta. Questo si farà aumentando le tariffe
urbane e diminuendo quelle in teleselezione, ergo
questa forma di liberalizzazione non porta
all'abbassamento delle tariffe telefoniche, almeno non
subito e non per tutti.
Chi chiede a gran voce le privatizzazioni potrà
forse, sottolineiamo forse, ottenere un abbassamento dei
costi di facciata. Gioia che svanirà presto a fronte
dell'imminente ribaltamento degli standard, che
obbligherà a cambiare tutto quello che è stato
acquistato finora, pena l'esclusione. In un attimo si
perde tutto l'illusorio vantaggio, e allora chi terrà in
considerazione gli interessi sociali? Gli interessi
sociali non generano profitti e quindi non interessano ai
privati a cui in fin dei conti si sarà regalato un bene
pubblico, senza ritorno di alcun genere.
Insomma la competizione abbasserà i prezzi? Forse, ma
a certe condizioni. Si dovrebbero confrontare una
pluralità di soggetti, messi tutti in grado di accedere
alle infrastrutture essenziali e dovrebbero esserci delle
regole chiare, controllate a loro volte da strutture con
finanziamenti e personale. Nessuna di queste condizioni
è data ora, né probabilmente lo sarà in un prossimo
futuro.
Questo rimanda a delle decisioni eminentemente
politiche, a degli atti che stabiliscano quando e come la
privatizzazione generi costi sociali non più
sostenibili. Il dramma è che però il mondo politico
appare particolarmente afono e non in grado di orientare
il processo stesso delle telecomunicazioni, sia perché
alcuni degli stessi attori politici (Berlusconi) sono
direttamente parte in causa nel processo che verrà
avviato nel 1998, sia perché certe forze di governo
tendono alla conservazione di un controllo sulla gestione
come merce di scambio di potere.
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INTERNET E
INTRANET
La seconda grande novità, anch'essa determinante
nell'orientare concretamente gli scenari futuri, è
relativa all'ingresso delle aziende su Internet.
Esisterà ancora Internet così come finora l'abbiamo
conosciuta?
Sfumate le velleitarie ipotesi di un mercato di massa,
i produttori e gli operatori stanno convergendo verso un
più rassicurante mercato aziendale. In pieno delirio di
sopravvalutazione del tasso di crescita (dell'ordine
80-100% annuo) si sono create dal nulla una miriade di
piccole aziende e un paio di queste hanno raggiunto una
massa critica che le ha portate a essere quotate in
borsa. Ora questo potenziale ha un urgente bisogno di uno
sbocco di mercato sicuro. Dai primi tentativi di analisi
è emerso che le maggiori opportunità non vengono dallo
sfruttamento di massa di Internet come mezzo di
comunicazione globale, bensì da un utilizzo delle
tecnologie Internet per un uso interno alle aziende,
cioè Intranet. Evidentemente questa è una forzatura. Le
tecnologie che stanno alla base sono state sviluppate per
collegare computer diversi e remoti, piegarli a un uso
interno alle aziende con lo scopo di facilitarne il
lavoro cooperativo, aumentare l'efficienza aziendale e la
produttività individuale, denota come le originali
ipotesi di sfruttamento della rete abbiano il fiato
corto. Questo sembrerebbe confermare la nostra
fondamentale diffidenza verso ipotesi di imminenti
mercati di massa per la comunicazione mediata dal
computer, almeno finché questo avrà le sembianze, le
difficoltà d'uso e l'imperscrutabilità delle macchine
che conosciamo oggi, anche se molte cose sono cambiate
negli ultimissimi anni.
Per quanto si sia evoluto il computer in
generale e il pc nella sua versione casalinga
rimane uno strumento a supporto delle attività aziendali
e non adatto al mercato di massa di tipo televisivo.
I ritorni economici per quanto riguarda Internet sono
al momento individuabili in due specifici settori: il
software (comprese le riviste specializzate con dischetto
incluso) e un minimo di investimento pubblicitario.
Per quanto sfuggente chimera inventata dagli uffici
marketing cerchiamo di abbozzare una definizione di
Intranet come l'utilizzo delle tecnologie di Internet
(protocolli, programmi) utilizzate per pubblicare le
informazioni internamente all'azienda, in modo da
sviluppare il lavoro collaborativo: consultazione di
database, comunicazione interna, modulistica mediante
un'interfaccia semplice e coerente. Queste informazioni
non vengono rese pubbliche, ma sono visibili solo
all'interno della struttura aziendale. E' una sorta di
Web privato. Questo uso improprio delle tecnologie
Internet trova sponda nel processo di ridimensionamento e
polverizzazione delle grandi aziende con la conseguente
necessità di operare con strutture più piccole e
geograficamente disperse, nonché postazioni mobili.
Questo comporta che i Web privati debbano comunicare fra
di loro. Contestualmente è aumentata la disponibilità e
la diffusione dell'Isdn e anche l'accettazione di servizi
commutati ad alta velocità (Frame relay, Smds, Atm).
Questa convergenza di fattori spiega l'interesse del
mercato sia per Intranet/Internet che la campagna
ideologica sulla ineluttabilità delle privatizzazioni
nelle telecomunicazioni. Le grandi società vogliono
spostarsi dalle reti dedicate (costose e poco flessibili)
alle reti commutate pubbliche (economiche e facilmente
adattabili a nuove esigenze).
Tutto ciò negli ultimi quattro anni, di pari passo
con il grande boom mediatico su Internet e con i
conseguenti grandi investimenti su di essa.
Netscape afferma che il 70% del fatturato complessivo
dell'utenza aziendale per i prodotti Internet
(soprattutto server) è relativo a servizi Intranet
(secondo alcuni dati la vendita di server Intranet sarà
il doppio di quella di server Internet alla metà del
1997; oggi la spesa per server Web interni è di 1,6
milioni di dollari e poco meno di un miliardo per i
server Internet). Un mercato più ampio non potrà
esistere finché non esisteranno connessioni ad alta
velocità indispensabili per le applicazioni
multimediali. Il business da qui a quel momento (fino a
cinque anni) è solo Intranet. L'utenza consumer
finanzierà la creazione di queste strutture, che saranno
sempre ad alto prezzo per questa stessa utenza, ma
cominceranno a essere abbordabili per l'azienda.
A conferma di ciò, analizzando il fenomeno dei motori
di ricerca, non si può far a meno di rilevare una certa
analogia con delle dinamiche già sperimentate nel
settore dei browser, ovvero il meccanismo del laboratorio
tecnologico.
Netscape e Microsoft hanno fornito il software
gratuito per navigare in Internet e questa strategia ha
portato in due anni la Netscape a Wall Street, oltre a
intrecciare collaborazioni con tutti i provider e i
carrier telefonici. Negli ultimi tre anni i server di
ricerca si sono moltiplicati e hanno notevolmente
contribuito all'exploit delle cifre relative al mondo di
Internet, fornendo fino a ora un servizio completamente
gratuito. Emblematica è la vicenda Yahoo! Nata grazie a
due studenti, è stata in parte comprata da una società
giapponese per 63 milioni di dollari e successivamente la
collocazione del 10% delle azioni in borsa ha fruttato 34
milioni di dollari ne ha fatto triplicare il valore delle
azioni.
Allora può apparire folle che società, il cui
prodotto o servizio è a tutti gli effetti gratuito,
siano quotate a questi livelli e siano oggetto di vistosi
investimenti. Il tutto risulta certamente incomprensibile
se visto con le lenti distorte del tanto sbandierato
mercato di massa, mentre se si accostano passato e futuro
è sensato ipotizzare che tutte queste attività di così
alto contenuto tecnologico (browser e research server),
che attualmente lavorano esclusivamente per Internet,
nell'immediato opereranno per ben più remunerativi
server per Intranet. Insomma produttori e borsa hanno
scommesso sul mercato, valutabile in otto miliardi di
dollari nei prossimi due anni, dei servizi informativi
aziendali che hanno alla base la tecnologia Internet
collaudata e testata da milioni di utenti, di quel grande
laboratorio tecnologico e sociale che è l'Internet
pubblica. Le ultime tendenze evolutive di questi ultimi
due settori chiave rafforzano quest'ipotesi. Browser che
integrano un editor sofisticato per generare pagine Html
(Netscape 3 Gold) trovano un utilizzo coerente in
mano a un impiegato che inserisce le info aziendali per
un server Intranet, piuttosto che per la creazione di
homepage personali.
Search server veloci e basati su costose tecnologie di
punta che possono indicizzare milioni di pagine Html
nottetempo, creando database di parole per ricerche con
tempi di risposta di un paio di secondi, trovano una
giustificazione per applicazioni più redditizie di tipo
Intranet, che per meritorie ma gratuite attività di
catalogazione per la libera navigazione.
Insomma non si ha nessuna intenzione di sviluppare
Internet, ma di utilizzarla come una sorta di mega
betatester, per poi trarne profitti altrove.
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L'IDEOLOGIA
DELL'INFOBAHN: LO SCENARIO DISTOPICO
Infobahn, l'autostrada delle informazioni. Come molte
nuove tecnologie, la società delle informazioni, di cui
l'autostrada delle informazioni (Ai) è l'infrastruttura
portante, viene promossa da chi, con grandi mezzi
finanziari, scommette sui suoi successi.
Molti dei promotori contano su una particolare visione
dell'Ai, ovvero un canale tra il grande business e i
consumatori, e perciò lavorano per marginalizzare
visioni alternative. Ma la Rete appartiene alla sfera
pubblica, è soprattutto una questione di democrazia e di
diritti.
E' necessario rilanciare il dibattito sul suo ruolo e
sulle sue finalità, per tre buone ragioni:
a) per fornire un punto di equilibrio. Talvolta anche
noi abbiamo tracciato scenari improntati a un eccessivo
ottimismo riguardo alle autostrade dell'informazione. In
realtà tutti, dall'ingegnere a chi stila le regole,
progettano e pianificano su questo terreno avendo solo
come punto di riferimento una visione sbilanciata verso
gli interessi forti.
b) per cercare di disinnescare un'allarmante tendenza
che potrebbe condizionare nel futuro lo sviluppo delle
autostrade dell'informazione. Mentre un'Ai disegnata per
migliorare la qualità della vita, piuttosto che creare
nuovi voraci mercati, non è solo possibile, ma
addirittura benefica.
c) per discutere sul fatto che, mentre noi ci
schieriamo nel preservare il carattere aperto e libero
della precedente Internet, l'altra autostrada
dell'informazione, almeno quella che impatterà con il
grande pubblico, si sta modellando su altri e ben diversi
modelli.
Per avere un'anteprima della peggiore autostrada
dell'informazioni, si devono solo tenere d'occhio le
varie reti di servizio che i conglomerati di telefonia/tv
via cavo/intrattenimento e commerciali stanno
sperimentando in varie città in giro negli Usa e in
Europa. Questi "Full Service Network" non
forniscono alcun servizio di e-mail, di bacheca
elettronica e tanto meno di una qualsiasi forma di
comunicazione persona-persona.
Naturalmente l'Ai non avrà una sola identità, come
il nome stesso potrebbe suggerire. Piuttosto, sarà una
collezione di molte differenti reti.
Nonostante questa oggettiva frammentarietà,
determinate componenti e determinati servizi saranno
dominanti. Proprio come le tv e le radio commerciali oggi
dominano completamente il panorama dei media radiodiffusi
in Usa e Europa, è probabile che la componente dominante
delle Ai sia altamente commerciale, basata su un flusso
comunicativo dall'alto verso il basso, su sistemi
"pay-per" (a pagamento) per distribuire infotainment
e pubblicità verso i consumatori, oltre che per
raccogliere ordini d'acquisto. In questo contesto è
chiaro che molti "operatori" osteggiano la
presenza di componenti alternative, come le reti civiche,
reti comunitarie e amatoriali portate avanti da
organizzazioni non-profit o da strutture autorganizzate.
In assenza di queste componenti l'Ai sarà
probabilmente controllata dalle società comprese
nell'elenco di quelle 500 periodicamente redatto da
"Fortune", le quali la plasmeranno per i propri
profitti. Ci tratteranno come consumatori da bombardare
piuttosto che cittadini da connettere, per di più la
scelta dei consumatori sarà fortemente limitata dai
monopoli, siano essi orizzontali (carrier) o verticali
(editori). Il concetto di "puro e semplice
trasporto", per cui i carrier non avrebbero
controllo su, e non influenzino cosa è trasmesso e da
chi, è fortemente compromesso dalla recente
deregolamentazione delle telecomunicazioni in Usa e da
analoghe proposte in via di approvazione in Europa. Se
non interverranno fattori nuovi, entro dieci anni il
concetto di "puro e semplice trasporto"
scomparirà.
Nei vari mercati, poche compagnie controllerebbero non
solo la rete, ma pure molti dei suoi servizi, oscurando
le piccole imprese e fornitori di informazioni
indipendenti e non omologati. Questo interesserebbe anche
le apparecchiature per l'accesso alla rete che verrebbero
strumentalmente portate all'obsolescenza rapidamente,
obbligando i fruitori a rimpiazzarle o aggiornarle
frequentemente per poter rimanere collegati (Microsoft
docet).
L'Ai vuole che il mercato spinga informazioni verso i
consumatori, al contrario, una ben congegnata Ai dovrebbe
permettere a ognuno di mettere le informazioni
"sulla rete" e ai "cercatori" di
localizzarle e di tirarle fuori all'occorrenza. I
compratori dovrebbero in piena libertà, sfogliare,
cercare, scegliere e comprare. Non ci sarebbe più
bisogno di pubblicità e di conseguenza perderebbe senso
il business di raccogliere, scambiare e abusare dei dati
personali allo scopo di ricavarne un bersaglio per la
pubblicità. Ma, purtroppo, quella che intravvediamo non
sarà una rete incentrata sulla libera scelta. Il grande
business non è interessato a un mercato libero, ma
piuttosto a un mercato sotto tutela: cioè consumatori
che comperano per abitudine e mancanza di informazioni
sui concorrenti.
Anche Internet non ne sarà immune.
Il World Wide Web originariamente era orientato alla
scelta: la gente ci surfava, guardava e/o prelevava le
informazioni desiderate. Comunque, appena il Web è stato
commercializzato, sono stati aggiunti meccanismi di
forzatura. Molti siti Web commerciali richiedono che gli
utenti si registrino per ottenerne l'accesso. La
registrazione allo scopo di "visitare" il sito
regala al gestore l'indirizzo e-mail, come pure
un'indicazione dei propri interessi, per inserire il nome
in una lista di marketing diretto.
Se per Internet la cattura dei dati dei consumatori
deve essere aggiunta a forza, molti degli strumenti
cruciali dell'Ai verrebbero progettati sin dall'inizio a
questo scopo. In un "glorioso" futuro, il
potenziale di raccolta dati sulle transazioni online
sarà amplificato al massimo, creando servizi del tipo
"Fermati e iscriviti", dove i clienti verranno
adescati con prodotti o servizi attraenti ma vuoti,
mentre i soldi veri verranno fatti vendendo le liste di
questi clienti ad altre compagnie. Le legittime regole
sulla privatezza dei dati e contro l'uso delle
informazioni delle persone per scopi di cui non se ne sia
preventivamente autorizzato l'uso sono avvertite come un
ostacolo dal mercato e verranno presumibilmente
osteggiate.
C'è un'alternativa a questa visione: un'Ai dovrebbe
essere aperta a tutti, specialmente agli individui, alle
realtà autorganizzate, alle piccole imprese sociali che
vogliano fornire informazioni. Questo la renderebbe
orientata alla scelta piuttosto che orientata alla
costrizione. Potrebbe supportare forme di scambio diverse
dal consumo di prodotti. Potrebbe fornire pubblici
servizi e in subordine pure quelli privati. Potrebbe
permettere di preservare la nostra privatezza se così
desideriamo. Potrebbe migliorare la comunicazione
all'interno. Potrebbe metterci in contatto piuttosto che
bersagliarci. In breve, potrebbe essere un po' più come
la Rete civica metropolitana o il Minitel francese e meno
come il Full service network di Time-Warner. I fornitori
di infrastrutture potrebbero guadagnare con la
connettività e la rivendita della banda piuttosto che
con gioielli di zirconio, film e pizza. Un tale sistema
potrebbe generare un maggior valore complessivo in quanto
contribuirebbe a migliorare lo standard di vita di tutti.
Quale futuro quindi? Come ha evidenziato J.P. Barlow,
si notano segnali per cui la visione delle corporation
non incontra quella del pubblico. Sfortunatamente, ci
sono anche segni che i dirigenti di quelle corporation
sono troppo chiusi mentalmente per notarlo in tempo.
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IL CASO
ITALIANO: SIAE
Lasciamo da parte questi scenari distopici e
concentriamoci ora su alcuni episodi, estremamente
significativi, accaduti proprio negli ultimi mesi in
Italia. Già nel corso di più occasioni avevamo avuto
modo di notare che in questo paese le trasformazioni
giuridiche relative al digitale marciano a velocità
stratosferica e le recenti novità sembrano proprio
confermarlo.
Annunciata da una campagna pubblicitaria martellante,
alcuni nuovi protagonisti della "cultura"
italiana (Salvatores, Abatantuono ecc.) si sono impegnati
in prima persona contro il fenomeno della pirateria
videografica, aprendo la strada a una serie di modifiche
di carattere normativo sulla "legge d'autore"
del 1941. Il governo Berlusconi, nel novembre 1994, anche
per salvaguardare alcuni propri interessi legati al
mantenimento dei diritti di proprietà intellettuale su
autori quali Pirandello (in quel momento in scadenza),
decide di ritoccare la legge d'autore. Ne appesantisce
fortemente le pene, trasformandole da amministrative in
penali, e portando l'arco di protezione temporale sugli
autori fino a 70 anni dalla morte dello scrittore, in
sintonia con parte della normativa europea su questo
tema.
Nel contempo vengono introdotti una serie di articoli
di legge, proprio per salvaguardare l'opera
cinematografica e discografica contro le contraffazioni,
che si incentra in particolare nell'ormai famoso art. 171
ter. Questo articolo in particolare al comma c) dice: E'
punito con la reclusione da tre mesi a tre anni e con la
multa da lire 500.000 a lire 6.000.000 chiunque vende o
noleggia videocassette, musicassette o altro supporto
contenente fonogrammi o videogrammi di opere
cinematografiche o audiovisive o sequenze di immagini in
movimento, non contrassegnati dalla Siae ai sensi della
presente legge e del regolamento di esecuzione.
Nel dicembre del 1996, dapprima a Padova e poi via via
in città del Centro-Sud (Roma, Pisa, Livorno, Napoli
ecc.) parte una serie di iniziative giudiziarie di
sequestro di dischi, videocassette o quant'altro,
semplicemente perché merci non vidimate dal bollo Siae.
Il danno nei confronti degli esercenti, generalmente
provenienti dall'area culturale prossima al movimento, è
di decine di milioni ciascuno, con l'aggiunta, inoltre,
di una serie di comunicazioni giudiziarie estremamente
impressionanti e pesanti. Al di là delle argomentazioni
giuridiche specifiche che possono essere protestate in
sede dibattimentale, e in particolare il riferimento a
quel ai sensi della presente legge, che
implicitamente dovrebbe permettere anche ai musicisti di
poter usufruire delle particolari condizioni contrattuali
che regolano l'opera editoriale (non si capisce infatti
per quale ragione il musicista sia obbligato a far
timbrare le proprie opere, mentre lo scrittore no) resta
il fatto delle pesanti conseguenze sociali che questo
tipo di operazioni comporta.
Fin da ora difatti lo spazio di vendita di merci
provenienti da tutta un'area politico-culturale, per
comodità definibile come ruotante, ma non solo, attorno
ai centri sociali, sarà fortemente limitato e ristretto.
Tutti questi negozi di dischi, nati intorno alla
passione, sicuramente non distribuiranno più prodotti
non vidimati dalla Siae. Quanto accaduto, di fatto segna
un pesante arretramento sulla battaglia relativa al
copyright e soprattutto per quanto riguarda
l'autorappresentazione culturale e politica. Tutta una
area infatti si troverà ad accettare questo pesante diktat,
pena la pesante ghettizzazione dei prodotti, con
conseguenze anche significative, per questo settore
merceologico, su prospettive legate al reddito sociale e
ai processi di autoliberazione dal lavoro salariato.
Tutto ciò è da leggersi come una grande vittoria
politica della Siae su tutto il movimento sviluppatosi in
questi anni proprio sul diritto all'autoproduzione.
L'unica strada per potersi opporre a questo tipo di
strategia consiste nel negare l'esclusività
dell'intermediazione rappresentata dalla Siae (peraltro
affermata chiaramente dalla legge del 1941) sui diritti
di tutela e rappresentanza dei singoli autori. Tentare
cioè di brandire la parola d'ordine della
privatizzazione del settore. Ma è questa una strategia a
doppia lama, che vede già pronti a schierarsi in prima
fila i forti interessi editoriali, per approfittare di un
nuovo e lucrativo mercato, già previsto in forte
espansione nel prossimo futuro.
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LEGGE SULLA
PRIVACY
Tutta una serie di consuetudini quotidiane sono
sottoposte, che ne siamo consapevoli o meno, alla
"sorveglianza elettronica". Dal ritirare i
soldi col bancomat al fare un fax, dall'avviso di
chiamata all'uso dei telefoni cellulari, dalla richiesta
di rimborso della malattia alla patente, dagli acquisti
fatti tramite carta di credito al ricevere posta
pubblicitaria, dal prendere un libro in prestito dalla
biblioteca al passare la frontiera... in ognuno di questi
casi i computer registrano la scia dei nostri movimenti,
le nostre transazioni, consentendo controlli incrociati
con altri dati a disposizione degli elaboratori. Tutto
questo potrebbe voler dire che partecipare alla
modernità significa essere posti a forme di
"sorveglianza elettronica". A questi atti della
quotidianità bisogna poi aggiungere i problemi posti
dall'uso delle reti informatiche, in cui, come è noto,
la trasparenza comunicativa richiesta dalla
"netiquette" di fatto permette anche a
controllori di stato e privati di "ficcanasare"
addirittura sulle nostre opinioni personali e le nostre
abitudini. Pragmaticamente, negli Usa si è cercato di
rispondere almeno a una parte di questi problemi
inventando sistemi di crittografia a doppia chiave,
l'amato Pgp, che tende a salvaguardare, almeno in parte,
la riservatezza comunicativa.
Il controllo incrociato dei dati, ormai prassi
abitudinaria di istituzioni governative e gruppi
finanziari e di marketing privati, è oramai parte
integrante della nostra vita, con possibili ricadute in
ordine a problemi relativi al controllo sociale. La
paranoia distopica del Grande Fratello sembra quindi
riprendere nuovamente forza.
Anche in funzione dei dati appena segnalati, si è
assistito in molti paesi europei all'approvazione delle
cosiddette leggi sulla protezione dei dati o privacy, di
cui ultimo atto è stata l'approvazione nel dicembre
scorso della normativa italiana.
In realtà le leggi in questione, omologamente a
quanto avvenuto in Canada e negli Usa, appaiono più che
altro essere delle foglie di fico poste a proteggere più
gli interessi dei gruppi privati (e della volontà di
potenza dello stato) che la necessaria
riservatezza degli atti privati dei cittadini.
E questo accade, crediamo, per l'ambiguità insita
nello stesso concetto di privacy: una categoria
intrinsecamente legata a filo doppio con quello di
proprietà, che non sembra coprire adeguatamente la
salvaguardia delle questioni poste dalla fase attuale e
soprattutto futura della società digitale. Oggi, la
razionalità del controllo ha compiuto un salto di
qualità grazie al computer matching, il controllo
incrociato, una pratica che ha avuto inizio all'incirca
nel 1977 negli Usa. Inoltre le nuove tecnologie
possiedono una capacità autorafforzante e
autoincrementante, tanto da trasformare il problema della
sorveglianza stessa da politica in una con
caratteristiche e modalità del tutto inedite.
Riassumendo, abbiamo quindi oggi due forme di
sorveglianza elettronica. Da una parte quella
governativa, insita nello stato-nazione e ulteriormente
rafforzata dal suo sviluppo ulteriore: il welfare state.
Una modalità, quest'ultima, che per garantire diritti
diffusi e distribuiti, ha accentuato il processo del
controllo e della catalogazione. Paradossalmente, seppur
in presenza di un processo di ordine planetario in cui
tende a essere messa in discussione la legittimità
stessa dell'esistenza dello stato-nazione e quindi della
sua forma novecentesca del welfare, assistiamo a un
processo in cui il processo di accumulo di dati dei
cittadini tende a incrementare, invece che affievolirsi.
Dall'altra parte, abbiamo una sorveglianza di tipo
commerciale, un'esperienza per adesso soprattutto
nordamericana, ma che sta già tracimando verso paesi
europei come il nostro. Questa tipologia di controllo è
finalizzata al bombardamento commerciale, grazie all'uso
intelligente e selezionato in base a indici economici,
statisticamente elaborati in modo tale da trarre delle
vere e proprie categorie sociologiche di acquisto, che a
loro volta saranno bombardate con pubblicità mirata e
selettiva (direct mail, junk mail, phone
mailing eccetera). Questo è un tipo di sorveglianza
relativo alla capacità di consumo, che va a comporre dei
veri e propri profili elettronici, una vera e propria
immagine digitale fatta di dati (data-immagine) con
conseguenze significative sulle aspettative e prospettive
di vita dei cittadini in carne e ossa. I database vengono
difatti venduti e rivenduti, tanto da creare un nuovo e
lucroso mercato: i dati relativi alle capacità di
acquisto e consumo vengono incrociati con altri indici
(quali quartiere di provenienza, lavoro, assicurazione
sanitaria, fondi pensionistici eccetera) e quindi
utilizzati per concedere fidi bancari e prestiti.
Magicamente le poche figure devianti diventano coloro che
non consumano, verso cui sarà plausibile ed economico
l'utilizzo della violenza pura degli organi esecutivi.
Tutto questo può quindi avvenire perché viene creata
intorno alla nostra identità reale una sorta di sé
aggiuntivo e vituale, una data-immagine, che
pesantemente va a condizionare la nostra stessa vita
reale. Ed è una data-immagine che, al di là delle poche
assicurazioni formali che le leggi sulla cosiddetta
privacy offrono, morde in modo significativo il problema
stesso definito dal concetto di privacy. Ormai, a causa
della pervasività sempre maggiore rappresentata dagli
strumenti elettronici, che mantengono aperta la casa
verso l'esterno, la stessa privacy appare un concetto che
ha fatto il suo tempo, legata com'è alla preistoria
della modernità. Il concetto di privacy elaborato da
Samuel Warren e Louis Brandeis, come diritto
dell'individuo a essere lasciato solo, affonda le sue
radici in un periodo storico, l'Ottocento, in cui è
stata nettamente separata la sfera privata da quella
pubblica. La casa veniva traformata in luogo dell'interieur
borghese, staccata totalmente dal momento della
produzione e in cui era possibile il godimento della
merce e in buona sostanza della proprietà privata; ma
oggi che la casa è sempre meno luogo del rifugio
borghese e sempre più luogo della sorveglianza
elettronica, questo richiamo alla sfera intima della
privacy appare oggettivamente una regressione alla
modernità, a fronte del costituirsi del sé aggiuntivo,
della data-immagine, caratteristiche dell'età digitale.
Richiesta dalla Convenzione di Schengen, accordo
comunitario incentrato su operazioni di polizia e
controllo alle frontiere, è stata approvata la legge
italiana sulla protezione dei dati e la cosiddetta
privacy, che rimanda con una specifica delega al governo
la definizione dei compiti e degli obblighi attuativi e
la costituzione di un ufficio del garante.
La prima osservazione che può essere fatta è proprio
relativa alla duplicità della sorveglianza. La legge
difatti non offre alcuna copertura rispetto all'ingerenza
dello stato, né a quella degli interessi e delle agenzie
private di trattamento dei dati. Basti pensare che si
offre assoluta discrezionalità all'attività di
accumulazione dei dati da parte degli organi inquisitivi
e di sicurezza dello stato e che nella gran parte dei
casi non è necessario il consenso dell'interessato. Per
quanto riguarda la sorveglianza commerciale e privata
viene data implicitamente possibilità di cessione dei
dati personali, semplicemente comunicandone notizia al
Garante di controllo. Inoltre viene anche detto che
nessun atto giudiziario o amministrativo può fondarsi
esclusivamente su dati conservati elettronicamente, da
cui si deduce che, seppur parzialmente, questi atti
possono fondarsi su dati raccolti elettronicamente.
Infine quasi a esplicita conferma del fatto la
legge va soprattutto a costruire una botte di ferro
intorno alla legittimità della raccolta dei dati anche
personali si afferma che non si applicano le norme
riferite ai dati raccolti precedentemente alla data di
entrata in vigore della legge o quelli il cui il
trattamento sia iniziato prima della legge in questione.
Che parere dare quindi su questa normativa? A una
prima analisi il giudizio può essere solamente
monocorde. Questa è una legge che non tocca se non
marginalmente gli interessi privati di fare business sui
dati dei cittadini e non limita in alcun modo la volontà
di potenza dello stato attraverso i suoi organi di
controllo sulla società. L'unico aspetto positivo sta
nel fatto di riconoscere, con la sua stessa approvazione,
che esiste il problema. Una legge che forse avrebbe avuto
un certo senso se fosse stata approvata alla fine degli
anni Settanta, ma all'alba del Duemila, sul crinale
dell'avvento della società digitale, appare
oggettivamente inadeguata rispetto alle sfide sociali e
tecnologiche in atto.
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IMPRESA
SOCIALE E ORIZZONTE TECNOLOGICO
Infine, e solo per questioni di spazio non ci
soffermiamo più a lungo su tutta una serie di aspetti,
c'è da richiamare la questione dei movimenti e delle
risposte da questi date a una serie di atti decisi in
sede economica e legislativa.
Un primo aspetto che ci sembra di poter evidenziare è
che, purtroppo, la crisi della modernità ha fatto delle
vittime, e tra queste i movimenti sono stati tra i primi
a soccombere. L'ideologia della fine delle grandi
narrazioni, per brevità raccolte sotto la dicitura
postmodernità, ha cominciato a mietere successi. La
mancanza di una grande prospettiva unificante della
trasformazione ha, da una parte, lanciato numerose
intelligenze alla ricerca di nuovi percorsi e strade da
esperire. Ecco quindi sentieri prevedibilmente foriere di
successi, quali l'analisi del postfordismo e soprattutto
quella del lavoro autonomo di seconda generazione,
contemporaneamente ad altre, più culturaliste, ma anche
meno ricche dal punto di vista teorico, quali alcuni
approdi di analisi provenienti da circoli prevalentemente
studenteschi.
Dall'altra, l'esito più immediato e percepibile, è
un dato di carattere esistenziale, esploso con grande
violenza proprio negli ultimi due anni. Si tratta di un
fenomeno di diffrazione delle coscienze e delle
intelligenze, tutte orientate a ritagliarsi un proprio
spazio di visibilità mediatica, e tutte tese a giocare
un ruolo, per lo più da portaborse, all'interno del
grande gioco della "società dello spettacolo".
Ecco quindi l'improvviso protagonismo letterario di
"scrittori" giovanissimi, talvolta aventi come
proprio universo vitale quello del movimento, a cui a man
bassa ha attinto un'impresa editoriale in grave crisi di
idee e progetti. Ma ecco anche l'esplodere di un processo
di vera e propria balcanizzazione delle coscienze, che
vede schierati tutti contro tutti, in qualsiasi luogo:
dalla rete alla comunicazione interpersonale, dalla
propria attività di autoproduzione all'uso di tecniche
di ridondanza e rilancio dell'informazione sui quotidiani
nazionali. Probabilmente tutto questo è l'esito
momentaneo di un processo caratterizzato come non mai
dall'horror vacui proprio della fase, ma al
contempo non si può fare a meno di segnalarne gli esiti
negativi, soprattutto in vista di compiti più importanti
che ci attenderanno in futuro.
E' certo che la mancanza assoluta di un'etica
comunicazionale sta facendo implodere certi usi e
dinamiche delle rete stessa. Superata insomma la prima
grande fase della sua fondazione e successivamente del
suo consolidamento, cose avvenute grazie al concorso
delle intelligenze di tutt'Italia, oggi la crisi sembra
coinvolgere proprio l'uso "sensato" della rete,
il fatto in sintesi che la rete produca minor senso
sociale di quanto ci si potesse aspettare, conducendo
peraltro di riflesso alla rivalutazione di rapporti
territoriali e locali, che sembravano messi in
discussione in una fase precedente.
Come si supera questa crisi? Nel richiamare
l'essenziale avvertimento che, per fortuna, non esiste
alcuna avanguardia che possa offrire il giusto rimedio a
crisi che appaiono più di carattere generale, al
contempo cerchiamo di offrire una nostra ipotesi di
lavoro su quanto sta accadendo.
In primo luogo, crediamo corretto avviare una
riflessione collettiva sulle dinamiche più sotterranee
che albergano in un certo uso delle rete, ponendo
attenzione anche all'elemento dell'etica comunicazionale
e alla produzione del senso sociale.
Dall'altro, il fatto che, oggi come non mai, la
discussione appare verbosa e non collegata ad alcun
progetto concreto. Insomma ci pare che si discuta tanto,
anche con un livore straordinario, ma che al contempo non
si voglia, o non si abbia, la capacità di sporcarsi le
mani con dei progetti concreti, di qualsiasi tipo, che
allarghino la sfera di produzione del senso sociale.
E' anche alla luce di quanto sopra che ci chiediamo
quali siano state le cause che in Italia abbiano impedito
la nascita di esperienze di base più avanzate rispetto
alle esistenti. Se da una parte qualche anno fa, c'erano
delle buone premesse per la presenza e la nascita di
esperienze quali Cybernet ed Ecn, a tutt'oggi, come
peraltro si leggerà su questo numero di Decoder, sono
impensabili, almeno al momento, situazioni analoghe agli Xs4All
(Access for All) tedesco e olandese. Cioè di
situazioni che, partite con dinamiche di movimento, sono
riuscite a proporsi come dei servizi ad alto profilo
tecnologico e, in assenza di un servizio pubblico
adeguato, a costituire dei servizi con valenze di
carattere generale.
Perché ciò è accaduto all'estero e non nel nostro
paese? Perché per esempio in Germania e in Olanda, non
in Inghilterra e Francia è da suggerire, nei fatti è
accaduto che forme di imprese sociali, pur all'interno
dell'ambiguità intrinseca del termine, sono riuscite a
nascere e a proporsi in maniera intelligente, coprendo
terreni d'interesse molteplici, dallo sviluppo
ecosostenibile, alla progettazione di ambienti con
materiali "diversi", alla creazione di circuiti
teatrali di valore pari a quelli "ufficiali",
alla progettazione di imprese ad alta qualificazione
tecnologica (come per esempio Xs4all). Varie sono le
ragioni di questa maggiore pragmaticità delle situazioni
estere. Qui formuliamo alcune cause in ordine sparso,
senza alcuna pretesa di sistematicità né volontà di
trattazione organica, giusto a mo' di agenda: i movimenti
degli anni Settanta hanno inciso maggiormente nel
progettare ipotesi alternative della società, che però
fossero ascrivibili allo sviluppo capitalistico stesso,
da cui una minore radicalità e al contempo una maggiore
concretezza (macrobiotica, vegan, rete
"alternativa" più diffusa di botteghe);
maggior trasparenza e intelligenza politica delle
istituzioni, anche a causa di precondizioni storiche di
tipo etico-religioso; maggior ricchezza e maggior
internità ai processi di modernizzazione. Diversamente
l'unico ambito di novità emerso dalla situazione
italiana si può racchiudere nella parola "centri
sociali", un fenomeno molteplice nelle sue origini e
derive, che oggi conosce una grande difficoltà nel
sapersi trasformare a fronte dell'epocale modificazione
postfordista.
Prima di tuffarci nell'esperienza italiana riprendiamo
l'analisi sulle modalità di situazioni come Xs4all e
consimili: queste esperienze sono di tipo
cooperativistico o con altra parola sono imprese sociali
nel campo delle nuove tecnologie, dove allo spirito di
collaborazione e alla finalità sociale si affiancano
caratteristiche interessanti. Per esempio vengono messe
in gioco delle professionalità di alto livello in
progetti che possono avere un peso rilevante
nell'economia dell'informazione di una determinata zona
geografica. Viene sottratto alle istituzioni il compito
di "togliere ai ricchi per dare ai poveri",
ovvero addossare agli acquirenti di servizi commerciali i
costi della distribuzione gratuita di Internet all'intera
cittadinanza. Questo senza chiedere nulla, ma
semplicemente diventando i gestori del progetto stesso.
La nostra situazione è particolare. Abbiamo infatti
una forte presenza di soggetti che sono collocati nel
punto alto dei processi produttivi moderni (come dimostra
l'inchiesta sui centri sociali, da noi pubblicata in Geografie
del desiderio) e inoltre proprio intorno alle reti
alternative circolano sicuramente capacità e
professionalità di un certo livello. Il problema sta nel
fatto che tutti costoro viaggiano separati, atomizzati
l'uno dall'altro, senza la capacità di saper pensare o
progettare qualcosa che sia d'interesse e valore
generale.
A un livello minimale, il dibattito nato l'anno
passato sull'impresa sociale, aveva secondo noi anche
questo senso: mettere in relazione proprio questi
soggetti, per costruire progetti di chiara finalità
sociale, al fine anche di produrre reddito. O forse la
discriminante del reddito va rivista con attenzione.
Forse per qualcuno non è appetibile rinunciare al
reddito da attività professionali usuali, riversando in
certe attività "sociali" esclusivamente
richieste affettive-amicali, mentre per altri il rifiuto
del reddito o delle relazioni con il mondo che il mercato
"necessariamente" determina, fa sì che venga
rifiutata in toto una tale possibilità.
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SOTTRARRE
SPAZI ALLO STATO
Che lo stato debba cambiare, non è una nostra
impressione ma una certezza. Lo stato welfarista è in
grande trasformazione. Si definiranno diversamente
compiti e sfere di attività e il grande dibattito è
già iniziato da tempo, anche se subirà una sua
accelerazione proprio durante i prossimi due anni.
Sicuramente la grande attenzione assegnata ultimamente al
volontariato sociale è un segnale di grande importanza
politica. Lo stato dismette sfere di attività
conquistate durante gli ultimi settant'anni e le delega,
a costi minori, a soggetti giuridici e umani generalmente
animati da dinamiche d'impegno sociale. Ecco quindi la
nascita dell'idea del terzo settore (realtà non solo
italiana, è da dire), la legge apposita, che favorisce
vere e proprie corporation del terzo settore come
Acli e Arci, le iniziative di smantellamento della
sanità pubblica in Lombardia, affidate da Formigoni a
strutture d'impegno sociale d'ispirazione cattolica clientelare.
Crediamo che questo processo in corso, caratterizzato
dalla sottrazione allo stato di sfere di socialità e
impresa, debba essere governato meglio. Proviamo a
pensare cosa potrebbe succedere se al centro di questa
dismissione fosse posta la questione del danaro versato
per la pensione. I progetti di Treu e Ciampi tentano in
effetti di indirizzare la parziale dismissione di denaro
"pensionistico" verso i soliti controlli del
mercato finanziario e azionario, attraverso l'escamotage
dei fondi pensione. Altro impatto si avrebbe se gruppi
numerosi di lavoratori decidessero di autorappresentarsi
e pretendessero di ricevere in busta paga l'intero
ammontare del salario, compresa la parte che viene
accantonata per la pensione. Del resto, questa è già la
dinamica in nuce dei lavoratori autonomi di
seconda generazione, che tendono, individualmente però,
a trovare una soluzione per la questione della pensione.
In sintesi bisogna avere idea che è finita una certa
idea di stato, come immediato e meccanico prodotto
risultante dal conflitto tra le classi, mutuata
direttamente da Hegel e Ricardo. Da Hegel perché è il
processo dialettico del conflitto tra le classi che crea
la forma-stato, da Ricardo perché la razionalità
economica che informa l'attività dei soggetti e ne
condiziona l'aspetto legislativo. Oggi questo schema
sembra essere in difficoltà: i processi di
globalizzazione impongono una ridefinizione dei confini
dei flussi commerciali, dei percorsi linguistici e delle
affinità culturali; pertanto riferirsi alle stato con
una logica prettamente rivendicativa caratteristica del
ciclo politico-economico cosiddetto taylorista parrebbe
non avere più senso. Diversa invece la strategia
dell'esodo che a partire dagli anni Ottanta numerosi
soggetti hanno praticato in Europa in un ventaglio di
posizioni fondate sul rifiuto: del lavoro, di
rappresentanza politica, sindacale, di visibilità. In
una parola si sono resi indisponibili scegliendo la via
della rivendicazione anziché quella della sottrazione di
sé alle istanze istituzionali. Del resto anche Deleuze
in più occasioni ha evidenziato come il
"nomadismo" sia stato ed è forse il tratto
caratteristico dell'antagonismo soggettivo di questa fase
storica.
Da un certo punto di vista la pretesa supremazia dei
popoli stanziali su quelli nomadi così tanto accarezzata
dalla storiografia occidentale risulta essere pura
leggenda. Quella mongolica è stata l'unica invasione
invernale della Russia svoltasi con successo. L'attività
nomade imponeva un non luogo della proprietà privata
sulle terre e sulle donne; la supremazia militare
derivava esclusivamente dalla velocità in battaglia
ovvero dalla capacità di mettere "un mare d'erba
fra sé e il nemico". All'opposto, nei popoli
sedentari si è assistito allo sviluppo di un senso
religioso avviluppato sul'identità e tendente al
fanatismo e un senso artistico talmente raffinato da
rasentare la decadenza.
Allora, ritornando alla questione dell'impresa
sociale, crediamo che se ne possa dare un primo quadro
concettuale: essa deve essenzialmente essere in grado di
sottrarre spazi allo stato, pur accettando di
relazionarvisi tatticamente, ma permettendo il
costituirsi di dinamiche sociali almeno al proprio
interno non di tipo capitalistico, finalizzate alla
produzione di merci e servizi aventi in sé un grado
aggiunto di valore sociale e d'uso. Per sfuggire alla
volontà di potere e di sussunzione che lo stato, tramite
la sua semplice esistenza, tende ad attuare, è
necessario confrontarsi e agire su un livello tecnologico
e di conoscenza dei saperi di alto livello.
Insomma bisogna sapersi sporcare le mani costruendo
progetti concreti, anche di alto profilo tecnologico, che
diano da vivere a chi ci lavora, ma che al contempo
rendano trasparente le ragioni e la necessità sociali a
un'utenza più ampia. Le risorse umane ci sono, come
crediamo di aver dimostrato con la pubblicazione del
questionario dei centri sociali. Probabilmente ciò che
manca è la piena consapevolezza del mutamento di fase
epocale che stiamo vivendo. L'esperienza della modernità
crediamo si debba esplicare nell'accettazione creativa di
questa sfida. Bisogna riempire di senso sociale l'horror
vacui della postmodernità.
Buon lavoro.
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