l'EMERGENZA TECNOLOGICA E IL PASSAGGIO DA COSMO-PLOIS A TECNO-POLIS by Umberto Galimberti
Quarta di copertina
Questo libro si propone di evidenziare la
trasformazione che l'uomo subisce nell'età della tecnica. Noi continuiamo
a pensare la tecnica come uno strumento a nostra disposizione, mentre la
tecnica è divenuta l'ambiente che ci circonda e ci costituisce secondo
quelle regole di razionalità che, misurandosi sui soli criteri delle
funzionalità e dell'efficienza, non esitano a subordinare le esigenze
dell'uomo alle esigenze dell'apparato tecnico. Inconsapevoli, ci muoviamo
ancora con i tratti tipici dell'uomo pre-tecnologico che agiva in vista di
scopi iscritti in un orizzonte di senso, con un bagaglio di idee e un
corredo di sentimenti in cui si riconosceva. Ma la tecnica non tende a uno
scopo, non promuove un senso, non apre scenari di salvezza, non redime,
non svela verità: la tecnica funziona. E poiché il suo funzionamento
diventa planetario, questo libro si propone di rivedere i concetti di
individuo, libertà, salvezza, verità senso, scopo, ma anche quelli di
natura, etica, politica, religione, storia, di cui si nutriva l'età
umanistica e che ora, nell'età della tecnica, dovranno essere
riconsiderati, dismessi o rifondati alle radici. Per questa
rifondazione, occorre abbandonare le psicologie del soggetto. Che sono poi
tutte le psicologie, costruire su qualche sfondo «umanistico» che prevede
l'uomo come soggetto, e fondare una nuova psicologia, qui denominata
psicologia dell'azione, capace di riconoscere nella tecnica l'essenza
dell'uomo e di individuare nella sua attuale estensione, che oggi appare
senza limiti, quegli strumenti psichici che, se ancora non consentono
all'uomo di dominare la tecnica, possano almeno evitare che la tecnica, da
condizione essenziale della esistenza umana, si trasformi in causa
dell'insignificanza del suo stesso esistere. La tecnica infatti
può significare quel punto assolutamente nuovo, e forse irreversibile,
nella storia nel quale la domanda non è più: «che cosa possiamo fare noi
con la tecnica», ma «che cosa la tecnica può fare di
noi».
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L’uomo e la
tecnica
Siamo tutti persuasi
di abitare l’età della tecnica, di cui godiamo i benefici in termini di
beni e spazi di libertà. Siamo più liberi degli uomini primitivi perché
abbiamo più campi di gioco in cui inserirci. Ogni rimpianto, ogni
disaffezione al nostro tempo ha del patetico. Ma nell’assuefazione con cui
utilizziamo strumenti e servizi che accorciano lo spazio, velocizzano il
tempo, leniscono il dolore, vanificano le norme su cui sono state
scalpellate tutte le morali, rischiamo di non chiederci se il nostro modo
di essere uomini non è troppo antico per abitare l’età della tecnica che
non noi, ma l’astrazione della nostra mente ha creato, obbligandoci, con
un’obbligazione più forte di quella sancita da tutte le morali che nella
storia sono state scritte, a entrarvi e a prendervi parte.
In questo inserimento
rapido e ineluttabile portiamo ancora in noi i tratti dell’uomo
pre-tecnologico che agiva in vista di scopi iscritti in un orizzonte di
senso, con un bagaglio di idee proprie e un corredo di sentimenti in cui
si riconosceva. L’età della tecnica ha abolito questo scenario
«umanistico», e le domande di senso che sorgono restano inevase, non
perché la tecnica non sia ancora abbastanza perfezionata, ma perché non
rientra nel suo programma trovar risposte a simili domande. La tecnica
infatti non tende a uno scopo, non promuove un senso, non apre scenari di
salvezza, non redime, non svela la verità: la tecnica funziona, e
siccome il suo funzionamento diventa planetario, questo libro si propone
di rivedere i concetti di individuo, identità, libertà, salvezza, verità,
senso, scopo, ma anche quelli di natura, etica, politica, religione,
storia, di cui si nutriva l’età pre-tecnologica e che ora, nell’età della
tecnica, dovranno essere riconsiderati, dismessi, o rifondati dalle
radici.
La tecnica è il nostro
mondo
Sono questi alcuni temi
che nascono dal pensare la configurazione che l’uomo va assumendo nell’età
della tecnica. Le riflessioni qui svolte sono solo un avvio. Resta ancora
molto da pensare. Ma prima di tutto resta da pensare se le categorie che
abbiamo ereditato dall’età pre-tecnologica e che tuttora impieghiamo per
descrivere l’uomo sono ancora idonee per questo evento assolutamente nuovo
in cui l’umanità, come storicamente l’abbiamo conosciuta, fa esperienza
del suo oltrepassamento.
Per orientarci occorre
innanzitutto farla finita con le false innocenze, con la favola della
tecnica neutrale che offre solo i mezzi che poi gli uomini
decidono di impiegare nel bene o nel male. La tecnica non è neutra, perché
crea un mondo con determinate caratteristiche che non possiamo evitare di
abitare e, abitando, contrarre abitudini che ci trasformano
ineluttabilmente. Non siamo infatti esseri immacolati ed estranei, gente
che talvolta si serve della tecnica e talvolta ne prescinde. Per il fatto
che abitiamo un mondo in ogni sua parte tecnicamente organizzato, la
tecnica non è più oggetto di una nostra scelta, ma è il nostro ambiente,
dove fini e mezzi, scopi e ideazioni, condotte, azioni e passioni, persino
sogni e desideri sono tecnicamente articolati e hanno bisogno della
tecnica per esprimersi: Per questo abitiamo la tecnica
irrimediabilmente e senza scelta. Questo è il nostro destino di
occidentali avanzati, e coloro che, pur abitandolo, pensano ancora di
rintracciare un’essenza dell’uomo al di là del condizionamento tecnico,
come capita di sentire, sono semplicemente degli inconsapevoli che vivono
la mitologia dell’uomo libero per tutte le scelte, che non esiste se non
nei deliri di onnipotenza di quanti continuano a vedere l’uomo al di là
delle condizioni reali e concrete della sua esistenza.
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La tecnica è l’essenza
dell’uomo
Con il termine «tecnica»
intendiamo sia l’universo dei mezzi (le tecnologie) che nel loro
insieme compongono l’apparato tecnico, sia la razionalità che
presiede al loro impiego in termini di funzionalità ed efficienza. Con
questi caratteri la tecnica è nata non come espressione dello spirito
umano, ma come rimedio alla sua insufficienza biologica.
Infatti, a differenza
dell’animale che vive nel mondo stabilizzato dall’istinto, l’uomo, per la
carenza della sua dotazione istintuale, può vivere solo grazie alla sua
azione, che da subito approda a quelle procedure tecniche che ritagliano,
nell’enigma del mondo, un mondo per l’uomo. L’anticipazione, l’ideazione,
la progettazione, la libertà di movimento e d’azione, in una parola, la
storia come successione di autocreazioni hanno nella carenza biologica la
loro radice e nell’agire tecnico la loro espressione. In questo senso è
possibile dire che la tecnica è l’essenza dell’uomo, non solo
perché, a motivo della sua insufficiente dotazione istintuale, l’uomo,
senza la tecnica, non sarebbe sopravvissuto, ma anche perché, sfruttando
quella plasticità di adattamento che gli deriva dalla genericità e non
rigidità dei suoi istinti, ha potuto, attraverso le procedure tecniche di
selezione e stabilizzazione, raggiungere «culturalmente» quella
selettività e stabilità che l’animale possiede «per natura». Questa tesi,
che A. Gehlen ha ampiamente documentato nel nostro tempo, era stata
anticipata da Platone, Tommaso d’Aquino, Kant, Herder, Schopenhauer,
Nietzsche, Bergson, dunque da grandi esponenti del pensiero occidentale,
indipendentemente dalla direzione del loro orientamento.
La
tecnica e la rifondazione radicale della
psicologia
Se si accolgono queste
premesse, la psicologia deve fare con se stessa dei conti radicali e
incominciare a pensare le varie figure, oggetto del suo sapere, a partire
dalla tecnica, che è poi quel patto originario tra uomo e mondo che è
rimasto «impensato» sia dalla psicologia a indirizzo
scientifico-naturalistico, che tenta di «spiegare» l’uomo a partire
dall’esperimento sull’animale, sia dalla psicologia a indirizzo
fenomenologico-ermeneutico che, in tutte le sue varianti:
psicodinamiche, comportamentiste, cognitiviste, sistemiche, sociologiche,
tenta di «comprendere» l’uomo a partire dai condizionamenti tipici della
cultura occidentale che parla di «corpo», «anima» o
«coscienza». style="FONT-SIZE: 10pt"> Senza
un’adeguata riflessione sulla tecnica, pensata come essenza dell’uomo, la
psicologia scientifico-naturalistica non può che approdare all’etologia,
mentre la psicologia fenomenologico-ermeneutica non può che arrestarsi
all’ingenuità del soggettivismo, in quanto all’una sfugge che l’uomo è
abissalmente distante dall’animale perché privo di quel connotato tipico
dell’animale che è l’istinto, all’altra che l’«anima» o la «coscienza»
sono il residuato dell’azione e del suo prolungamento tecnico, quindi ciò
che resta dopo che l’azione ha già consentito all’uomo di essere al mondo
e, in esso, di ritagliare il suo mondo.
A questo punto occorre
fondare una psicologia dell’azione per evitare sia uno sguardo
riduttivo sull’uomo, come accade alla psicologia
scientifico-naturalistica che pensa l’uomo a partire dall’animale, sia uno
sguardo reattivo sull’uomo, come accade alla psicologia
fenomenologico-ermeneutica che non accosta l’uomo a partire dalla sua
esperienza immediata della realtà attraverso l’azione, ma dalla sua
esperienza seconda, e quindi re-attiva, che è la riflessione
sull’azione. Si scoprirà allora che, a partire dalla carenza istintuale
compensata dalla plasticità dell’azione, sarà possibile spiegare la
motricità, la percezione, la memoria, l’immaginazione, la coscienza, il
linguaggio, il pensiero, nella loro genesi e nel loro sviluppo, seguendo
un percorso assolutamente lineare che, per giustificare il suo tracciato,
non ha bisogno di ricorrere a quel dualismo anima e corpo che ogni
psicologia dichiara di voler superare senza sapere come. Non c’è
scienza infatti che, nata da un falso presupposto, possa rimuoverlo senza
negare se stessa. E questo è proprio il caso della psicologia che, anche
se non lo sa, è la più «platonica» delle scienze, perché ancora non si è
emancipata dal dualismo antropologico che, inaugurato da Platone e
rigorizzato da Cartesio, impedisce alla psicologia di approdare al suo
oggetto, se prima questa scienza non si disloca dal presupposto dualistico
da cui è nata. Si tratta di una dislocazione che può avvenire solo
attraverso una rifondazione radicale della psicologia, che deve assumere
come suo punto di partenza non il «soggetto psicologico» e tanto meno
l’«oggetto psichico», ma l’azione.
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La genesi
«strumentale» della tecnica
Se condividiamo la tesi
che la tecnica è l’essenza dell’uomo, allora il primo criterio di
leggibilità che va modificato nell’età della tecnica è quello tradizionale
che prevede l’uomo come soggetto e la tecnica come strumento
a sua disposizione. Questo poteva essere vero per il mondo antico, dove la
tecnica si esercitava entro le mura della città, che era un’enclave
all’interno della natura, la cui legge incontrastata regolava per intero
la vita dell’uomo. Per questo Prometeo, l’inventore delle tecniche, poteva
dire: «la tecnica è di gran lunga più debole della
necessità».
Ma oggi è la città ad
essersi estesa ai confini della terra, e la natura è ridotta a sua
enclave, a ritaglio recintato entro le mura della città. Allora la
tecnica, da strumento nelle mani dell’uomo per dominare la natura,
diventa l’ambiente dell’uomo, ciò che lo circonda e lo costituisce
secondo le regole di quella razionalità che, misurandosi sui criteri della
funzionalità e dell’efficienza, non esita a subordinare alle esigenze
dell’apparato tecnico le stesse esigenze dell’uomo. La
tecnica infatti è iscritta per intero nella costellazione del
dominio, da cui è nata e al cui interno ha potuto svilupparsi solo
attraverso rigorose procedure di controllo che, per esser davvero
tale, non può evitare di essere planetario. Questa rapida sequenza
era già chiaramente intravista e annunciata dalla scienza moderna al suo
primo sorgere quando, senza indugio e con chiara preveggenza, F. Bacone
toglie ogni equivoco e proclama: «scientia est potentia».
La
trasformazione della tecnica da «mezzo» in «fine»
Ma all’epoca di Bacone i
mezzi tecnici erano ancora insufficienti e l’uomo poteva ancora
rivendicare la sua soggettività e il suo dominio sulla strumentazione
tecnica. Oggi invece il «mezzo» tecnico si è così ingigantito in termini
di potenza ed estensione da determinare quel capovolgimento della
quantità in qualità che Hegel descrive nella Logica e che,
applicato al nostro tema, fa la differenza tra la tecnica antica e lo
stato attuale della tecnica.
Infatti, finché la
strumentazione tecnica disponibile era appena sufficiente per raggiungere
quei fini in cui si esprimeva la soddisfazione degli umani bisogni, la
tecnica era un semplice mezzo il cui significato era interamente assorbito
dal fine, ma quando la tecnica aumenta quantitativamente al
punto da rendersi disponibile per la realizzazione di qualsiasi fine,
allora muta qualitativamente lo scenario, perché non è più il fine
a condizionare la rappresentazione, la ricerca, l’acquisizione dei mezzi
tecnici, ma sarà la cresciuta disponibilità dei mezzi tecnici a dispiegare
il ventaglio di qualsivoglia fine che per loro tramite può essere
raggiunto. Così la tecnica da mezzo diventa fine, non perché la
tecnica si proponga qualcosa, ma perché tutti gli scopi e i fini che gli
uomini si propongono non si lasciano raggiungere se non attraverso la
mediazione tecnica. Già Marx aveva descritto questa trasformazione dei
mezzi in fini a proposito del denaro che, se come mezzo serve a
produrre beni e a soddisfare bisogni, quando beni e bisogni sono mediati
per intero dal denaro, allora diventa il fine, per raggiungere il
quale, se necessario, si sacrifica anche la produzione dei beni e la
soddisfazione dei bisogni. In altra prospettiva e sullo sfondo di un altro
scenario, E. Severino osserva che se il mezzo tecnico è la condizione
necessaria per realizzare qualsiasi fine che non può esser raggiunto
prescindendo dal mezzo tecnico, il conseguimento del mezzo diventa il
vero fine che tutto subordina a sé. Ciò comporta il crollo di numerosi
impianti categoriali con cui l’uomo aveva finora definito se stesso e la
sua collocazione nel mondo.
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La tecnica
e la revisione degli scenari storici
Se la tecnica diventa
quell’orizzonte ultimo a partire dal quale si dischiudono tutti i campi
d’esperienza, se non è più l’esperienza che, reiterata, mette capo alla
procedura tecnica, ma è la tecnica a porsi come condizione che decide il
modo di fare esperienza, allora assistiamo a quel capovolgimento per cui
soggetto della storia non è più l’uomo, ma la tecnica che,
emancipatasi dalla condizione di mero «strumento», dispone della natura
come suo fondo e dell’uomo come suo funzionario. Ciò comporta una radicale
revisione dei tradizionali modi di intendere la ragione, la verità,
l’ideologia, la politica, l’etica, la natura, la religione e la stessa
storia.
La ragione non
è più l’ordine immutabile del cosmo in cui prima la mitologia, poi la
filosofia e infine la scienza si erano riflesse creando le rispettive
cosmologie, ma diventa procedura strumentale che garantisce il
calcolo più economico tra i mezzi a disposizione e gli obbiettivi che si
intendono raggiungere.
La verità non è più conformità
all’ordine del cosmo o di Dio perché, se non si dà più orizzonte capace di
garantire il quadro eterno dell’ordine immutabile, se l’ordine del mondo
non dimora più nel suo essere, ma dipende dal «fare tecnico»,
l’efficacia diventa esplicitamente l’unico criterio di verità.
Le ideologie, la
cui forza riposava sull’immutabilità del loro corpo dottrinale, nell’età
della tecnica non reggono alla dura riduzione di tutte le idee a semplici
ipotesi di lavoro. La tecnica infatti, a differenza dell’ideologia
che muore nei momento in cui il suo nucleo teorico non «fa più mondo» e
tantomeno lo «spiega», pensa le proprie ipotesi come «per principio»
superabili, e perciò non si estingue quando un suo nucleo teorico si
rivela inefficace perché, non avendo legato la sua verità a quel nucleo,
può mutare e correggersi senza smentirsi. I suoi errori non la fanno
crollare, ma si convertono immediatamente in occasioni di
autocorrezione.
La politica, che
Platone aveva definito «tecnica regia» perché assegnava a tutte le
tecniche le rispettive finalità, oggi può decidere solo in subordine
all’apparato economico, a sua volta subordinato alle disponibilità
garantite dall’apparato tecnico. In questo modo la politica si trova in
quella situazione di adattamento passivo, condizionata com’è dallo
sviluppo tecnico che essa non può controllare e tantomeno indirizzare, ma
solo garantire. Riducendosi sempre di più a pura amministrazione tecnica,
la politica mantiene un ruolo attivo e quindi decisionale solo là dove la
tecnica non è ancora egemone, o dove nella sua egemonia presenta ancora
delle lacune o delle insufficienze in ordine al vincolo della sua
razionalità strumentale.
L’etica, come forma
dell’agire in vista di fini, celebra la sua impotenza nel mondo
della tecnica regolato dal fare come pura produzione di risultati,
dove gli effetti si addizionano in modo tale che gli esiti finali non sono
più riconducibili alle intenzioni degli agenti iniziali. Ciò significa che
non è più l’etica a scegliere i fini e a incaricare la tecnica di reperire
i mezzi, ma è la tecnica che, assumendo come fini i risultati delle sue
procedure, condiziona l’etica obbligandola a prender posizione su una
realtà, non più naturale ma artificiale, che la tecnica non cessa di
costruire e render possibile, qualunque sia la posizione assunta
dall’etica. Infatti, una volta che l’«agire» è subordinato al «fare», come
si può impedire a chi può fare di non fare ciò che può? Non con la
morale dell’intenzione inaugurata dal cristianesimo e riproposta
nei termini della «pura ragione» da Kant, perché questa, fondandosi sul
principio soggettivo dell’autodeterminazione e non su quello della
responsabilità oggettiva, non prende in considerazione le conseguenze
oggettive delle azioni e, proprio perché si limita a salvaguardare la
«buona intenzione», non può essere all’altezza del fare tecnico. Ma
all’altezza non è neppure l’etica della responsabilità che M. Weber
ha introdotto e H. Jonas riproposto perché, se l’etica della
responsabilità si limita ad esigere, come scrive Weber, che «si risponda
delle conseguenze prevedibili delle proprie azioni», ebbene è proprio
della tecnica dischiudere lo scenario dell’imprevedibilità, imputabile,
non come quella antica a un difetto di conoscenza, ma a un eccesso del
nostro potere di fare enormemente maggiore del nostro potere di
prevedere.
La natura. Il
rapporto uomo-natura è stato regolato per noi occidentali da due visioni
del mondo: quella greca, che concepisce la natura come dimora di
uomini e dèi, e quella giudaico-cristiana, poi ripresa dalla scienza
moderna, che la concepisce come campo di dominio dell’uomo. Per
differenti che siano, queste due concezioni convengono nell’escludere che
la natura rientri nella sfera di competenza dell’etica, il cui ambito è
stato finora limitato alla regolazione dei rapporti fra gli uomini, senza
alcuna estensione agli enti di natura. Ma oggi che la natura mostra tutta
la sua vulnerabilità per effetto della tecnica, si apre uno scenario di
fronte al quale le etiche tradizionali si fanno mute, perché non hanno
strumenti per accogliere la natura nell’ambito della responsabilità umana.
La religione ha
come suo presupposto quella dimensione del tempo dove alla fine
(éschaton) si realizza ciò che all’inizio era stato annunciato.
Solo in questa dimensione «escatologica», che iscrive il tempo in un
disegno, tutto ciò che accade nel tempo acquista il suo senso. Ma la
tecnica, sostituendo alla dimensione escatologica del tempo quella
progettuale, contenuta, come scrive S.Natoli, tra il recente passato
in cui reperire i mezzi disponibili e l’immediato futuro in cui questi
mezzi trovano il loro impiego, sottrae alla religione, per effetto di
questa contrazione del tempo, la possibilità di leggere nel tempo un
disegno, un senso, un fine ultimo a cui poter far riferimento per
pronunciare parole di salvezza e verità.
La storia si
costituisce nell’atto della sua narrazione, che ordina l’accadere degli
eventi in una trama di senso. Il reperimento di un senso traduce il
tempo in storia, così come il suo smarrimento dissolve la
storia nel fluire insignificante del tempo. Il carattere afinalistico
della tecnica, che non si muove in vista di fini ma solo di
risultati che scaturiscono dalle sue procedure, abolisce qualsiasi
orizzonte di senso, determinando così la fine della storia come tempo
fornito di senso. Rispetto alla memoria storica, la memoria della tecnica,
essendo solo procedurale, traduce il passato nell’insignificanza
del «superato» e accorda al futuro il semplice significato di
«perfezionamento» delle procedure. L’uomo, a questo punto, nella sua
totale dipendenza dall’apparato tecnico, diventa astorico, perché
non dispone di altra memoria se non quella mediata dalla tecnica, che
consiste nella rapida cancellazione del presente e del passato per un
futuro pensato solo in vista del proprio autopotenziamento.
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La
tecnica e la soppressione di tutti i fini nell’universo dei
mezzi
Tra le categorie che siamo
soliti impiegare per orientarci nel mondo, l’unica che ci pone all’altezza
dello scenario dischiuso dalla tecnica è la categoria di assoluto.
«Assoluto» significa sciolto da ogni legame (solutus ab), quindi da
ogni orizzonte di fini, da ogni produzione di senso, da ogni limite e
condizionamento. Questa prerogativa, che l’uomo ha attribuito prima alla
natura e poi a Dio, ora si trova a riferirla non a se stesso, come
lasciavano presagire la promessa prometeica e la promessa biblica quando
alludevano al progressivo dominio dell’uomo sulla natura, ma al mondo
delle sue macchine, rispetto alla cui potenza, per giunta iscritta
nell’automatismo del loro potenziamento, l’uomo, come scrive G. Anders,
risulta decisamente inferiore e inconsapevole della sua
inferiorità. Per effetto di questa inconsapevolezza, chi aziona
l’apparato tecnico o chi vi è semplicemente inserito, senza poter più
distinguere se è attivo o è a sua volta azionato, più non si pone la
domanda se lo scopo per cui l’apparato tecnico è messo in azione sia
giustificabile o abbia semplicemente un senso, perché questo
significherebbe dubitare della tecnica, senza di cui nessun senso e
nessuno scopo sarebbero raggiungibili, e allora la «responsabilità» viene
affidata al «responso» tecnico, dove è sotteso l’imperativo che si
«deve» fare tutto ciò che si «può» fare. Ma quando il
positivo è iscritto per intero nell’esercizio della potenza tecnica
e il negativo è circoscritto all’errore tecnico, al guasto
tecnicamente riparabile, la tecnica guadagna quel livello di
autoreferenzialità che, sottraendola ad ogni condizionamento, la pone come
assoluto. Un assoluto che si presenta come un universo di mezzi, il
quale, siccome non ha in vista veri fini ma solo effetti,
traduce i presunti fini in ulteriori mezzi per l’incremento infinito della
sua funzionalità e della sua efficienza. In questa «cattiva infinità»,
come la chiamerebbe Hegel, qualcosa ha valore solo se è «buono per
qualcos’altro», per cui proprio gli obbiettivi finali, gli scopi, che
nell’età pre-tecnologica regolavano le azioni degli uomini e ad esse
conferivano «senso», nell’età della tecnica appaiono assolutamente
«insensati». A questo proposito non ci si deve far ingannare dal
bisogno di «senso», dalla sua ricerca affannosa, dalla sua domanda
incessante a cui cercano di dar risposta le religioni con le loro
promozioni di fede e le pratiche terapeutiche con le loro promozioni di
salute, perché tutto ciò rivela solo che la figura del «senso» non si è
salvata dall’universo dei mezzi. Se infatti il reperimento di senso
favorisce l’esistenza, se, come scrive Nietzsche, rappresenta per la
condizione umana un vantaggio biologico, là dove il senso non si
trova occorre inventarlo, e allora anche il «senso» si
giustifica perché, come mezzo per vivere, è in grado di assurgere a
sua volta al rango di «mezzo».
Dall’alienazione
tecnologica all’identificazione tecnologica
Che ne è dell’uomo in un
universo di mezzi che non ha in vista altro se non il perfezionamento e il
potenziamento della propria strumentazione? Là dove il mondo della vita è
per intero generato e reso possibile dall’apparato tecnico, l’uomo diventa
un funzionario di detto apparato e la sua identità viene per intero
risolta nella sua funzionalità, per cui è possibile dire che nell’età
della tecnica l’uomo è presso-di-sé solo in quanto è funzionale a
quell’altro-da-sé che è la tecnica. La tecnica infatti non è
l’uomo. Nata come condizione dell’esistenza umana e quindi come
espressione della sua essenza, oggi, per le dimensioni raggiunte e per
l’autonomia guadagnata, la tecnica esprime l’astrazione e la combinazione
delle ideazioni e delle azioni umane a un livello di artificialità tale
che nessun uomo e nessun gruppo umano, per quanto specializzato, e forse
proprio per effetto della sua specializzazione, è in grado di controllarla
nella sua totalità. In un simile contesto, essere ridotto a funzionario
della tecnica significa allora per l’uomo essere «altrove» rispetto alla
dimora che ha storicamente conosciuto, significa essere lontano da
sé. Marx ha chiamato questa condizione «alienazione» e,
coerentemente alle condizioni del suo tempo, ha circoscritto l’alienazione
al modo di produzione capitalistico. Ma sia il capitalismo (causa
dell’alienazione) sia il comunismo (che Marx progettava come rimedio
all’alienazione) sono ancora figure iscritte nell’umanismo, ossia
ancora in quell’orizzonte di senso, tipico dell’età pre-tecnologica, dove
l’uomo è previsto come soggetto e la tecnica come strumento. Ma, nell’età
della tecnica, che prende avvio quando l’universo dei mezzi non ha in
vista alcuna finalità (neppure il profitto), il rapporto si capovolge, nel
senso che l’uomo non è più un soggetto che la produzione
capitalistica aliena e reifica, ma è un prodotto dell’alienazione
tecnologica che instaura sé come soggetto e l’uomo come suo
predicato. Ne consegue che la strumentazione teorica messa a
disposizione da Marx, che pure fu tra i primi a prevedere gli scenari
dell’età della tecnica da lui chiamata «civiltà delle macchine», non è più
del tutto idonea per leggere il tempo della tecnica, non perché
storicamente il capitalismo si è rivelato vincente sul comunismo, ma
perché Marx si muove ancora in un orizzonte umanistico, con
riferimento all’uomo pre-tecnologico, dove, come vuole la lezione
di Hegel, il servo ha nel signore il suo antagonista, e il signore nel
servo, mentre, nell’età della tecnica, non ci sono più né servi né
signori, ma solo le esigenze di quella rigida razionalità a cui devono
subordinarsi sia i servi sia i signori. A questo punto anche il
concetto marxiano di «alienazione» appare insufficiente, perché di
alienazione si può parlare solo quando, in uno scenario umanistico, c’è
un’antropologia che vuol recuperarsi dalla sua estraneazione nella
produzione, in un contesto caratterizzato dal conflitto di due volontà, di
due soggetti che ancora si considerano titolari delle loro azioni, non
quando c’è un unico soggetto, l’apparato tecnico, rispetto al quale i
singoli soggetti sono semplicemente suoi predicati. Esistendo
esclusivamente come predicato dell’apparato tecnico che pone se stesso
come assoluto, l’uomo non è più in grado di percepirsi come «alienato»,
perché l’alienazione prevede, almeno in prospettiva, uno scenario
alternativo che l’assoluto tecnico non concede, e perciò, come in altro
contesto scrive R. Madera, l’uomo traduce la sua alienazione
nell’apparato in identificazione con l’apparato. Per effetto di
questa identificazione, il soggetto individuale non reperisce in sé altra
identità al di fuori di quella conferitagli dall’apparato e, quando si
compie l’identificazione degli individui con la funzione assegnata
dall’apparato, la funzionalità, divenuta autonoma, riassorbe in sé ogni
senso residuo di identità.
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La tecnica
e la revisione delle categorie umanistiche
Siccome, in quanto
funzionario dell’apparato tecnico, l’uomo non è più leggibile secondo gli
impianti categoriali elaborati e maturati nell’età pre-tecnologica,
occorre una radicale revisione delle categorie umanistiche, a partire
dalle nozioni di individuo, identità, libertà, comunicazione, fino al
concetto di anima, la cui arretratezza psichica ancora non consente
all’uomo d’oggi un’adeguata comprensione dell’età della tecnica.
L’individuo. Questa
nozione tipicamente occidentale, che ha avuto nella nozione platonica di
«anima», rivisitata dal cristianesimo, il suo atto di nascita, ha nell’età
della tecnica il suo prevedibile atto di morte. Certo non muore
quell’entità indivisibile (dal latino: in-dividuum) che a livello
naturale fa parte della specie e a livello culturale di una società di cui
ripete, per le sue caratteristiche, il tipo generale, ma muore quel
soggetto che, a partire dalla consapevolezza della propria
individualità, si pensa autonomo, indipendente, libero fino ai confini
della libertà altrui e, per effetto di questo riconoscimento, uguale agli
altri. In altri termini non muore l’individuo empirico, l’atomo sociale,
ma il sistema di valori che, a partire da questa singolarità, hanno
deciso la nostra storia.
L’identità. Questa
nozione che, come quella di individuo, nasce all’interno dell’antropologia
occidentale perché, prima dell’Occidente e a fianco dell’Occidente,
l’individuo non riconosce la sua identità ma solo l’appartenenza al
gruppo con cui si identifica, dipende, come ci ricorda Hegel, dal
riconoscimento. Solo che, mentre nell’età pre-tecnologica era
possibile riconoscere l’identità di un individuo dalle sue azioni, perché
queste erano lette come manifestazioni della sua anima, a suo volere
intesa come soggetto decisionale, oggi le azioni dell’individuo non sono
più leggibili come espressioni della sua identità, ma come possibilità
calcolate dall’apparato tecnico, che non solo le prevede, ma addirittura
le prescrive nella forma della loro esecuzione. Eseguendole, il soggetto
non rivela la sua identità, ma quella dell’apparato, all’interno del quale
l’identità personale si risolve in pura e semplice funzionalità.
La libertà. Se con
questa parola intendiamo l’esercizio della libera scelta a partire dalle
condizioni esistenti, dobbiamo dire che la società tecnologicamente
avanzata offre uno spazio di libertà decisamente superiore a quello
concesso nelle società poco differenziate, dove la qualità personale e non
oggettiva dei legami, nonché l’omogeneità sociale riducono il margine di
libertà a quello elementare dell’obbedienza o della disobbedienza. La
tecnica, avendo come suo imperativo la promozione di tutto ciò che si può
promuovere, crea un sistema aperto che di continuo genera un ventaglio
sempre più allargato di opzioni, che diventano via via praticabili in base
ai livelli di competenza che i singoli individui sono in grado di
acquisire. Ma la libertà come competenza, avendo come spazio
espressivo quello impersonale dei rapporti professionali, crea
quella scissione radicale tra «pubblico» e «privato» che, anche se da
molti è acclamata come cardine della libertà, comporta quella conduzione
schizofrenica della vita individuale (schizofrenia funzionale), che si
manifesta ogni volta che la funzione, che all’individuo spetta come membro
impersonale dell’organizzazione tecnica, entra in collisione con quello
che l’individuo aspira ad essere come soggetto globale. Si determina
infatti per la prima volta nella storia la possibilità per l’individuo di
entrare in rapporto con gli altri individui, e quindi di «fare società»,
senza che ciò comporti un qualsiasi legame di natura personale. E allora,
privati di una comune esperienza d’azione, che è sempre più prerogativa
esclusiva della tecnica, gli individui reagiscono al senso di impotenza
che sperimentano ripiegandosi su se stessi e, nell’impossibilità di
riconoscersi comunitariamente, finiscono con il considerare la società
stessa in termini puramente strumentali.
La cultura di
massa. La disarticolazione tra «pubblico» e «privato», tra «sociale» e
«individuale» operata dalla razionalità tecnica, modifica anche il
concetto tradizionale di «massa», introducendo quella variante che è la
sua atomizzazione e disarticolazione in singolarità
individuali che, foggiate da prodotti di massa, consumi di massa,
informazioni di massa, rendono obsoleto il concetto di massa come
concentrazione di molti, e attuale quello di massificazione come
qualità di milioni di singoli, ciascuno dei quali produce, consuma,
riceve le stesse cose di tutti, ma in modo solistico. Viene così
consegnata a ciascuno la propria massificazione, ma con l’illusione della
privatezza e l’apparente riconoscimento della propria individualità, in
modo che nessuno sia più in grado di percepire un «esterno» rispetto a un
«interno», perché ciò che ciascuno incontra in pubblico è esattamente ciò
di cui è stato rifornito in privato. Nascono da qui quei processi di
deindividuazione e deprivatizzazione che sono alla base
delle condotte di massa tipiche delle società omologate e conformiste.
I mezzi di
comunicazione. All’omologazione sociale contribuiscono in modo
esponenziale i mezzi di comunicazione che la tecnica ha potenziato
modificando il nostro modo di fare esperienza: non più in contatto
con il mondo, ma con la rappresentazione mediatica del mondo che rende
vicino il lontano, presente l’assente, disponibile quello che altrimenti
sarebbe indisponibile. Esonerandoci dall’esperienza diretta e mettendoci
in rapporto non con gli eventi, ma con il loro allestimento, i mezzi di
comunicazione non hanno alcun bisogno di falsificare o di oscurare la
realtà, perché proprio ciò che informa codifica, e l’effetto di codice
diventa non solo criterio interpretativo della realtà, ma anche modello
induttore dei nostri giudizi, che a loro volta generano comportamenti nel
mondo reale conformi a quanto appreso dal modello induttore. In questa
comunicazione tautologica, dove chi ascolta sente le stesse cose
che egli stesso potrebbe tranquillamente dire, e chi parla dice le stesse
cose che potrebbe ascoltare da chiunque, in questo monologo
collettivo l’esperienza della comunicazione crolla, perché è abolita
la differenza specifica tra le esperienze personali del mondo che sono
alla base di ogni bisogno comunicativo. Con il loro rincorrersi, infatti,
le mille voci e le mille immagini che riempiono l’etere aboliscono
progressivamente le differenze che ancora esistono fra gli uomini e,
perfezionando la loro omologazione, rendono superfluo se non impossibile
parlare in «prima persona». A questo punto i mezzi di comunicazione non
appaiono più come semplici «mezzi» a disposizione dell’uomo perché, se
intervengono sulla modalità di fare esperienza, modificano l’uomo
indipendentemente dall’uso che questi ne fa e dagli scopi che si propone
quando li impiega.
La psiche. Quando
nell’epoca pre-tecnologica il mondo non era disponibile nella sua
totalità, ogni anima costruiva se stessa come risonanza del mondo di cui
faceva esperienza. Questa risonanza era per ogni uomo la sua
interiorità. Oggi, esonerata dall’esperienza personale del mondo,
l’anima di ciascuno diventa coestensiva al mondo. In questo modo
vengono soppresse: la differenza tra interiorità ed esteriorità,
perché il contenuto della vita psichica di ciascuno finisce con il
coincidere con la comune rappresentazione del mondo, o per lo meno con ciò
che i mezzi di comunicazione le destinano come «mondo»; la differenza tra
profondità e superficie perché, con buona pace della psicologia del
profondo, la profondità finisce con l’essere null’altro che il riflesso
individuale delle regole del gioco a tutti comune dispiegato in
superficie; la differenza tra attività e passività perché, se la
tendenza della società tecnologica è quella di funzionare ad un regime di
massima razionalità, quindi leibnizianamente come un
sistema armonico prestabilito, non
si dà alcuna «attività» che non sia per ciò stesso «adattamento» alle
procedure tecniche che, sole, la rendono possibile. In questo modo l’anima
viene progressivamente depsicologizzata e resa incapace di
comprendere che cosa veramente significa vivere nell’età della tecnica,
dove ciò che si chiede è un potenziamento delle facoltà intellettuali su
quelle emotive, per poter essere all’altezza della cultura oggettivata
nelle cose che la tecnica esige a scapito e a spese di quella
soggettiva degli individui.
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L’età della
tecnica e l’inadeguatezza della
comprensione
umana La depsicologizzazione dell’anima trattiene le
discussioni sull’età della tecnica a quel livello inessenziale che è
l’esaltazione incondizionata o la demonizzazione acritica. Questo libro
vorrebbe promuovere quel passo ulteriore che è l’apertura
dell’orizzonte della comprensione, persuasi come siamo che
oggi orizzonte della comprensione non è più la natura nella sua
stabilità e inviolabilità, e neppure la storia che abbiamo vissuto
e narrato come progressivo dominio dell’uomo sulla natura, ma la
tecnica, che dischiude uno spazio interpretativo che si è
definitivamente congedato sia dall’orizzonte della natura che da quello
della storia.
Questo è il passaggio
epocale in cui ci troviamo, dove l’epocalità è data dal fatto che la
storia che abbiamo vissuto ha conosciuto la tecnica come quel fare
manipolativo che, non essendo in grado di incidere sui grandi cicli della
natura e della specie, era circoscritto in un orizzonte che rimaneva
stabile e inviolabile. Oggi anche questo orizzonte rientra nelle
possibilità della manipolazione tecnica, il cui potere di sperimentazione
è senza limite perché, a differenza di quanto accadeva agli albori
dell’età moderna, dove la sperimentazione scientifica avveniva in
«laboratorio», quindi in un mondo artificiale distinto da quello
naturale, oggi il laboratorio è divenuto coestensivo al mondo, ed è
difficile continuare a chiamare «sperimentazione» ciò che modifica in modo
irreversibile la nostra realtà geografica e quindi storica. Quando le
condizioni poste «per ipotesi» lasciano effetti irreversibili, non è più
possibile continuare a iscrivere la tecnica nel giudizio
ipotetico-congetturale che ha come sue caratteristiche la
problematicità, la revisionabilità, la provvisorietà, la perfettibilità,
la falsificabilità, ma occorre iscriverla nel giudizio
storico-epocale che, tra i giudizi, è il più severo, perché ciò che
accade una volta è accaduto per sempre in modo irrevocabile. A questo
punto la domanda: se l’uomo non esiste a prescindere da ciò che fa, che
cosa diventa l’uomo nell’orizzonte della sperimentazione illimitata e
della manipolazione infinita dischiusa dalla tecnica? Per rispondere è
necessario superare la persuasione ingenua secondo cui la natura umana è
un che di stabile che resta incontaminato e intatto qualunque cosa l’uomo
faccia. Se infatti l’uomo, come vuole l’espressione di Nietzsche, è
quell’«animale non ancora stabilizzato» che fin dalle origini non può
vivere se non operando tecnicamente, la sua natura si modifica in base
alle modalità di questo «fare», che perciò diventa l’orizzonte della sua
autocomprensione. Non dunque l’uomo che può usare la tecnica come
qualcosa di neutrale rispetto alla sua natura, ma l’uomo la cui
natura si modifica in base alle modalità con cui si declina tecnicamente.
Oggi la tecnica dispone l’uomo di fronte a un mondo che si presenta
come illimitata manipolabilità, e perciò la natura umana non può
essere pensata come la stessa che si relazionava a un mondo, che è poi il
mondo che la storia ci ha finora descritto, ai suoi limiti inviolabile e
fondamentalmente immodificabile. Eppure ancor oggi l’umanità non è
all’altezza dell’evento tecnico da essa stessa prodotto e, forse per la
prima volta nella storia, la sua sensazione, la sua percezione, la sua
immaginazione, il suo sentimento si rivelano inadeguati a quanto sta
accadendo. Infatti la capacità di produzione che è illimitata ha
superato la capacità di immaginazione che è limitata e comunque
tale da non consentirci più di comprendere, e al limite di considerare
«nostri», gli effetti che l’irreversibile sviluppo tecnico è in grado di
produrre. Quanto più si complica l’apparato tecnico, quanto più fitto
si fa l’intreccio dei sottoapparati, quanto più si ingigantiscono i suoi
effetti, tanto più si riduce la nostra capacità di percezione in
ordine ai processi, ai risultati, agli esiti, per non dire degli scopi di
cui siamo parti e condizioni. E siccome di fronte a ciò che non si riesce
né a percepire né a immaginare il nostro sentimento diventa
incapace di reagire, al «nichilismo attivo» della tecnica iscritto nel suo
«fare senza scopo» si affianca il «nichilismo passivo», denunciato da
Nietzsche, che ci lascia «freddi», perché il nostro sentimento di reazione
si arresta alla soglia di una certa grandezza. E così da «analfabeti
emotivi» assistiamo all’irrazionalità che scaturisce dalla perfetta
razionalità (strumentale) dell’organizzazione tecnica che cresce su se
stessa al di fuori di qualsiasi orizzonte di senso.
L’esperimento nazista, non per la sua crudeltà, ma proprio
per l’irrazionalità che scaturisce dalla perfetta razionalità di
un’organizzazione, per la quale «sterminare» aveva il semplice
significato di «lavorare», può essere assunto come quell’evento che segna
l’atto di nascita dell’età della tecnica. Non si trattò allora,
come oggi potrebbe apparire, di un evento erratico o atipico per la nostra
epoca e per il nostro modo di sentire, ma di un evento
paradigmatico, in grado ancora oggi di segnalare che se non saremo in
grado di portarci all’altezza dell’operare tecnico generalizzato a
dimensione globale e senza lacune, ciascuno di noi resterà irretito in
quella irresponsabilità individuale che consentirà al totalitarismo della
tecnica di procedere indisturbato, senza neppure più il bisogno di
appoggiarsi a tramontate ideologie. A differenza, infatti, del
nichilismo descritto dalla filosofia che si interroga sul senso
dell’essere e del non essere, il nichilismo della tecnica non mette in
gioco solo il senso dell’essere e quindi dell’uomo, ma l’essere
stesso dell’uomo e del mondo nella sua totalità. E se il nichilismo
descritto dalla filosofia era anticipatore, profetico, ma
impotente, perché non era in grado di determinare il nichilismo che
prefigurava, il nichilismo sotteso al carattere afinalistico della tecnica
non solo ha in suo potere la nientificazione, ma, stante la qualità
degli imperativi tecnici e la morale degli strumenti che ne deriva, è
nella possibilità di esercitare questo potere. Il fatto che la filosofia,
e con lei la letteratura e l’arte, ancora si trattengono sul problema del
senso dell’essere e quindi dell’uomo, senza sporgere sul problema della
possibilità che hanno l’uomo e il mondo di continuare ad essere,
contribuisce a quel «nichilismo passivo» che Nietzsche denunciava come
nichilismo della rassegnazione. Nata sotto il segno
dell’anticipazione, di cui Prometeo, «colui che pensa in anticipo»,
è il simbolo, la tecnica finisce in questo modo col sottrarre all’uomo
ogni possibilità anticipatrice, e con essa quella responsabilità e
padronanza che deriva dalla capacità di prevedere. In questa incapacità,
divenuta ormai inadeguatezza psichica, si nasconde per l’uomo il
massimo pericolo, così come nell’ampliamento della sua capacità di
comprensione la sua flebile speranza. Questo ampliamento
psichico, alla cui promozione questo libro affida il suo senso, se da
un lato non è sufficiente a dominare la tecnica, evita almeno all’uomo che
la tecnica accada a sua insaputa e, da condizione essenziale
all’esistenza umana, si traduca in causa dell’insignificanza del
suo stesso esistere.
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