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USABILITY SESSION - ETICA HACKER E CURA DELL'ESPERIENZA Michele Visciola
I saggi sociologici sull’etica degli hacker (la parola viene erroneamente tradotta in italiano con il termine “pirata”. Indica, in realtà, una persona che prova un grande piacere nel proprio lavoro di programmatore) mostrano una comunità di persone unite da convinzioni e comportamenti sociali, pur non avendo alcuna reale propensione a riconoscersi in un’unica sigla o raggruppamento unificatore (si veda, ad esempio, Levy S. Hackers: Heroes of the Computer Revolution, Ny, Delta 1994). Piuttosto, si tratta di persone il cui stile di vita si identifica con il rifiuto a dividere la realtà di lavoro da quella dedicata ad altre attività verso le quali, magari, ci si possa sentire maggiormente attratti.

Un hacker è soprattutto un buon manager della propria vita professionale; e questa non è affatto disgiunta dal tempo di vita dedicato a coltivare passioni profonde, talento e interesse genuino per le cose. Un hacker non ha una particolare fede ideologica né propende per alcune tecnologie preferendole ad altre. Tuttavia, mal si coniuga la filosofia etica dell’hacker con la filosofia del lavoro che si manifesta nell’economia dominata dall’industria delle tecnologie dell’informazione. Anzi, a ben vedere, possiamo affermare che l’etica hacker è sorta come reazione all’etica del lavoro espressa dall’economia liberista del mercato. Nelle opere che illustrano i valori etici dell’hacker non viene proposto alcun tentativo sistematico di mettere in discussione in chiave “politica programmatica” i presupposti sociali e i fondamenti economici sui quali è cresciuta l’industria della tecnologia dell’informazione. Vengono però esaminati e discussi i legami profondi tra il modo di condurre gli affari in questa industria e l’etica del lavoro che questa esprime, facendola risalire in modo prioritario all’etica protestante.
Pekka Himanen è indubbiamente l’autore che meglio di tutti ha saputo fare un ritratto dell’etica dell’hacker. Il suo merito principale è di essere riuscito a creare un legame ideale con altre espressioni che propongono visioni alternative a quella dell’industria del profitto e dell’accumulazione di ricchezza fine a se stessa, in particolare con il vasto movimento dell’open source.

L’intuizione principale da cui muove l’etica hacker, secondo Himanen, è che esiste una contraddizione fondamentale tra la fede cieca nel progresso dovuto agli avanzamenti della tecnologia e la realtà di lotta per la sopravvivenza che contraddistingue ancora la vita di molte persone. Come mai, si chiedono gli hacker, malgrado gli avanzamenti della tecnologia, le condizioni necessarie per procurarsi una vita decente sono diventate addirittura più difficili?

Il sentimento diffuso tra gli hacker è che il progresso, anziché facilitare la nostra lotta per la sopravvivenza, in realtà, la sta rendendo ancora più complicata. Ma c’è una ragione di tutto questo. E questa è dovuta al fatto che è avvenuta una sostituzione del raggiungimento del bene sociale con il raggiungimento e la ricerca del profitto. Se il fine ultimo è fare soldi, si dimentica completamente la passione per le cose che si sta facendo e si smette di coltivare le passioni per le quali si desidera essere riconosciuti dagli altri. Il conseguimento e l’accumulazione del denaro diventano un fine e non un mezzo per procurarsi condizioni di vita soddisfacenti. Quando il far soldi diventa il criterio guida nella scelta dei progetti da condurre, la passione per il proprio lavoro non è più una componente indispensabile. Secondo Himanen, prendersi cura e farsi carico di qualcosa è “l’inizio di ogni comportamento etico” e, pertanto, costituisce un elemento fondante senza il quale decade ogni successiva aspirazione etica. Ci sono almeno altri sei valori fondanti l’etica hacker (si veda Pekka Himanen, The hacker ethic, Ny, Random House, 2000).

Tuttavia, il principio del “prendersi cura con passione” (caring) mi sembra assolutamente ciò che più avvicina l’etica hacker ai comportamenti perseguiti all’interno della comunità dei professionisti dell’usabilità, dell’interazione uomo-computer e del design orientato all’utente. Esiste comunque una varietà di significati associati al concetto di “prendersi cura”. Nell’accezione presentata da Himanen, questa si riferisce alla propensione degli hackers più ricchi di dirigere la propria disponibilità economica verso obiettivi umanitari, e in particolare di dedicare importanti risorse per aiutare coloro che sono maggiormente sfruttati dalle aziende che prosperano nell’economia egoistica.

È il caso ad esempio di Kapor (fondatore della Lotus), che finanzia un programma per eliminare problemi di salute causati dalle prassi di lavoro delle aziende. Inoltre, il termine viene riferito a un ulteriore significato: preoccuparsi in modo più generale degli altri è un fine a sé stante e rivela il desiderio di eliminare la logica della lotta per la sopravvivenza, che ispira gran parte delle azioni nelle società capitalistiche. L’obiettivo, per il quale non è però chiaro l’impatto che può in realtà avere una comunità di hacker, è sentirsi responsabili per le conseguenze a lungo termine della società digitale e aiutare direttamente coloro che rimangono ai margini.
Nell’accezione del significato della parola “caring” prevalente all’interno della comunità dei designer dell’interazione e dei servizi orientati all’utente, a me sembra che questo sia il significato che più ci accomuni. Non è ovviamente possibile in queste pagine dar conto delle innumerevoli sfumature con cui viene presentato il concetto di “caring” all’interno delle comunità dei designer dell’interazione. Tuttavia, a me sembra che, pur limitandomi a considerazioni che coinvolgono esclusivamente le prassi e le metodologie impiegate in queste comunità, all’interno delle comunità dei designer dell’interazione, l’obiettivo etico del “caring” non è fine a se stesso. Piuttosto si tratta di un obiettivo tramite il quale diventa possibile coltivare il fine dell’inclusione e cioè rendere il mezzo informatico e la tecnologia digitale un bene rivolto alla maggioranza delle persone per migliorarne le condizioni di vita e le aspirazioni di benessere.

Da questo punto di vista, il concetto di “caring” nel significato di progettazione di servizi e tecnologia per gli altri, abbinato a quello di “inclusione”, nel significato appena riportato, rappresenta una prospettiva originale di grande caratterizzazione.
Un hacker non dispone dei mezzi e della capacità strumentale per prendersi cura del valore dell’esperienza e del valore estetico del servizio basato su tecnologia digitale. Esiste in realtà una limitazione intrinseca nei presupposti seguiti al suo interno, che ha impedito almeno fino a pochissimi anni fa anche solo di pensare alle interfacce utente secondo le prospettiva dell’usabilità, del progettare per altri e dell’inclusione. Ma questo è il tema di una prossima rubrica.
Stay tuned!

(*) Questo è un breve estratto del nono capitolo del libro Cultura Digitale per il Design, Apogeo 2004.


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