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CINEMA E CYBERPUNK by Michele Tetro

Il Cyberpunk nasce convenzionalmente come (sub)genere letterario negli anni ‘80: per lo meno, è da questo decennio che è possibile individuarlo piuttosto facilmente nei suoi elementi costitutivi. In realtà fin dagli anni ‘50 -molto prima dell’avvento dei "padri fondatori" del cyberpunk, Gibson, Sterling e compagnia bella- era possibile coglierne alcune caratteristiche: si pensi solamente a Philip Dick.

Lo stesso fenomeno si verifica anche in campo cinematografico: se Blade Runner (1982, di Scott) è il film "programmatico" delle fascinazioni cyberpunk, punto fisso di riferimento visivo, stilistico e concettuale, è fin troppo facile risalire indietro nel tempo alla scoperta di antesignani più o meno famosi: ricordiamo velocemente il film Cyborg 2087: Metà uomo, metà macchina programmata per uccidere (1966 di Andreon), forse uno dei primi lungometraggi con organismi cibernetici come protagonisti. Chi ha visto questo dimenticato film non avrà avuto difficoltà a richiamarlo alla mente vedendo Terminator (1984 di Cameron), che potrebbe considerarsi quasi un remake non ufficiale della pellicola di Andreon.

D’obbligo è citare poi il celebre serial televisivo L’uomo da sei milioni di dollari, dei primi anni ‘70, ispirato al romanzo di Martin Caidin, in cui un astronauta, vittima di uno spaventoso incidente al suo rientro dallo spazio, viene ricostruito in laboratorio, divenendo una specie di superuomo dalle capacità fisiche illimitate, per vivere improbabili avventure non più fantascientifiche ma spionaggistiche o poliziesche tout-court. La serie ebbe anche alcuni seguiti di livello decisamente scadente: La donna bionica e Il cane bionico. Anche Spazio:1999, nell’episodio "Guardiano di Piri", ci mostra un cibernetico della Base Alpha in grado di "interfacciarsi" con il proprio computer mediante una valvola infilata nel cranio ... e siamo ancora nella prima metà degli anni ‘70!

Come abbiamo detto poc’anzi, è però Blade Runner a far compiere il giro di boa, anzi a favorire il salto di qualità e a fornire una sua propria legittimazione al cinema cyberpunk (e, almeno a parere di chi scrive, resta l’unica opera davvero degna, di fronte ad una serie pedissequa di film più o meno riusciti): i suoi personaggi di perdenti, sia umani che "replicanti", le sue atmosfere plumbee e claustrofobiche, il suo mondo ipertecnologizzato, arido di sentimenti, sull’orlo dell’abisso, omniproduttivo e consumatore di se stesso, senza speranza (o forse solo con un barlume di speranza...) sono elementi che feconderanno l’intero filone, ma non più riproposti con uguale forza di impatto. Tutto Philip Dick, con la sua disturbante personalità, è presente nelle indimenticabili immagini di questo film, nella storia della lotta senza quartiere contro i "replicanti" desiderosi di vivere come gli uomini, votati alla sconfitta eppure in grado di insegnarci ancora qualcosa sulla preziosità della vita, della vera vita. Ed è proprio questo il mondo che ci viene offerto dalle pagine di Gibson: un mondo composto da una umanità per lo più degradata, succube della tecnologia estraniante e delle multinazionali forti delle loro disumane imposizioni economiche.

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Blade Runner è dunque il cyberpunk, sia che si voglia considerare il film o il romanzo, "Cacciatore di Androidi", da cui è tratto. Ma la sua carica dirompente andrà man mano affievolendosi e quasi nessuna produzione cinematografica successiva riuscirà ad eguagliarla. Ma proviamo ad andare con ordine: il film Tron (1982, di Lisberger), contemporaneo al film-manifesto di Scott, ci mostra una variazione di tematiche cyberpunk, non con la creazione di un mondo e di personaggi, ma offrendoci solo un colorito scorcio di matrice puramente tecnologica-informatica di uno degli elementi portanti di tutto il cyberpunk: il cyberspazio. I protagonisti del divertente film, trasformati da un raggio laser in impulsi binari, riescono a penetrare all’interno di un computer, conoscendone i cyberabitanti e lottando con loro contro la malvagia MCP (Master Control Program), che addirittura controlla il mondo reale. Enorme e fumettistico videogame, persino noioso al giorno d’oggi, Tron resterà famoso per l’utilizzo massivo di neonate tecniche di computer-graphic e di elettronica virtuale (allora la frase di lancio della pellicola fu "il primo film interamente girato da un computer"). In questo settore l’impressione è che dopo Tron non vi siano state grandi innovazioni concettuali e il cyberpsazio verrà poi utilizzato nelle produzioni successive più che altro per far sfoggio di spettacolarità elettronica: come in Freejack-In fuga dal futuro (1991, di Murphy) o in Killer Machine (1993, di Talalay), fino a Il Tagliaerbe (1993, di Leonard) e al suo seguito, Il Tagliaerbe II - Cyberspace (1995, di Mahn), in cui realtà virtuale, telematica e cyberspazio la fanno davvero da padroni (con buona pace di Stephen King, arbitrariamente considerato l’ispiratore del soggetto del primo film). Nei due Tagliaerbe un innocuo giardiniere ritardato viene trasformato in uno spietato artefice di mondi virtuali, ben deciso a creare con l’aiuto di industriali senza scrupoli un agghiacciante cyber-reame sotto il proprio controllo. Ricordiamo qui anche il film Brainstorm-Generazione Elettronica (1981, di Trumbull), che con buoni dieci anni di anticipo prevede le realtà virtuali oggi fin troppo note: uno scienziato crea una macchina in grado di registrare virtualmente le sensazioni umane e i pensieri e così facendo deve sfuggire dalle brame della CIA, finendo con lo scatenare nella propria mente una vera e propria "tempesta cerebrale" che lo porterà addirittura alle soglie del Paradiso (!). Lo sfortunato film venne però massacrato in sede di montaggio ed ebbe parecchie grane per la morte in fase di riprese dell’attrice Natalie Wood. Addirittura Wim Wenders, quindi il cineasta autoriale, si cimenta con tematiche cyberpunk in Fino alla fine del mondo (1991): un uomo in giro per il mondo "cattura" immagini video per la madre cieca, moglie di uno scienziato che ha inventato un congegno per poter registrare i sogni. Si tratta di fantascienza sui generis, forse non ben gestita da Wenders, in alcuni punti del monumentale lungometraggio evidentemente a disagio. Altri esempi di realtà virtuali sono offerti dal film Rivelazioni (1995, di Levinson), in cui Michael Douglas mette alle strette la spietata antagonista Demi Moore penetrando nel cyberspazio e rivelando il piano di lei volto a screditarlo agli occhi dei dirigenti di una grande industria informatica; e soprattutto da Johnny Mnemonic (1994, di Longo), cyberpunk all’ennesima potenza, ispirato ad un racconto del padre fondatore del genere, Gibson, eppure prodotto già stantio e noiosetto, privo di originalità: in un mondo dominato dalle multinazionali, molto simile alla Los Angeles del 2019 del capolavoro di Scott, si aggirano i "postini" mentali, mercenari delle informazioni disposti ad affittare il proprio cervello a chi paga di più. Keanu Reeves conduce una lotta baracconesca contro chi vuole distruggere la sua mente e il segreto che vi si cela. Si direbbe che le genuine (ma se poi ve ne sono!) tematiche cyberpunk soccombano qui al mero thriller spettacolaristico di genere fantascientifico.

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Con Strange Days la regista Kathryn Bigelow ci mostra la Los Angeles di fine mllennio, ove esiste un casco sensoriale in grado di registrare i pensieri (e l’idea di base proviene da Brainstorm di Trumbull) : Lenny Nero è uno spacciatore di Squid (questo è il nome dell’apparecchio che legge appositi CD di emozioni) ed è in grado di fornire così vera realtà virtuale a chiunque, in un apocalittico futuro che è ormai alle porte. Forse un film sottovalutato, ma indubbiamente carico di adrenalina, come è nello stile della Bigelow.

Pare proprio che, tutto sommato, il cyberpunk abbia dato il meglio in quel pacchetto di film incentrati sull’evoluzione della robotica e della cibernetica. Citiamo in questa sede almeno Terminator (1984, di Cameron) e Terminator II: Il Giorno del Giudizio (1992, di Cameron), ispiratori di una marea di cloni che si appropriano della parola "terminator": già il secondo praticamente il remake del primo (con leggeri mutamenti di prospettiva: prima un cyborg inarrestabile e spietato, poi un cyborg leale e difensore degli umani), i due film di Cameron (evidentemente affascinato dal "metallo") sono semplificativi riguardo al pericolo dovuto alla ipertecnologizzazione cui va incontro l’uomo. Le macchine, presto o tardi, tenderanno a prevalere sui loro costruttori, scatenando una guerra senza precedenti (condotta addirittura attraverso i tunnel temporali). Alla saga di Terminator segue quella di Robocop (tre film, rispettivamente di Verhoeven, 1987, Kershner, 1990, Dekker, 1992): un poliziotto ucciso in missione viene "riattivato" come cyborg al servizio della legge e delle multinazionali che l’hanno progettato. In particolare il secondo film, pur incomparabile al capostipite, mostra dosi notevoli di violenza, in uno scenario che più cyberpunk non può essere, con impressionanti creazioni biorobotiche. Da ricordare anche Priorità Assoluta (1991, di Gibbins), cyberfilm che vede protagonista un terminator al femminile, androide anti-terrorismo contenente nel suo corpo addirittura una bomba nucleare e con gli schemi mentali ad imitazione di quelli della sua creatrice (quindi un robot con istinto materno!) e l’orrido e iperviolento Classe 1999 (1991, di Lester) in cui tre robo-insegnanti vengono installati in una scuola ad alto tasso di criminalità: in realtà si tratta di robo-guerrieri a tutti gli effetti, il trio scatenerà un’ecatombe di ragazzi prima di finire distrutto. Interessante per stile, ritmo e visionarietà è poi Hardware (1992, di Stanley), fin dal titolo pregno di amtosfera cyberpunk: in un mondo sull’orlo del tracollo, cadente e devastato da guerre civili, alla scultrice Jill viene regalata un’accozzaglia di metallo che un tempo era un prototipo di macchina di distruzione robotica. Tutt’altro che disattivato, il robot ha un unico scopo: distruggere. Ritmo forsennato da videoclip impazzito, sangue e violenza, metallo e fuoco, Hardware potrebbe da solo ben figurare come film programmatico sul cyberpunk.

Curiosamente ma non troppo, è dal Giappone che arriva il film la cui anima, alla pari di Blade Runner ma con diversa originalità e sensibilità, è puro cyberpunk: si tratta di Tetsuo-The Iron Man (1989, di Tsukamoto), cortometraggio in bianco e nero, folle, delirante, un incubo estremo di carne e metallo, disturbante, con scene al limite dell’intollerabile per sesso e violenza (l’incubo del protagonista che si vede sodomizzato da una strega con un fallo biomeccanico, lo stesso che uccide la sua ragazza penetrandola con una genitale trivella meccanica). Impossibile narrare per esteso la trama: in sintesi, l’uomo è destinato ad essere divorato dal metallo e distrutto dalla ruggine, ogni cosa vivente ne sarà soffocata fino alla totale estinzione. Tetsuo (da "tetsu",metallo , e "otoku", uomo, ovvero uomo d’acciaio), si scinderà nel suo interno e dovrà combattere contro se stesso, fino a mutarsi in un’unica macchina di distruzione che spazzerà via il mondo (nel sequel-remake Tetsuo II: The Body hammer, 1991). Tsukamoto è riuscito ad andare oltre lo stesso Cronenberg nel finale de La Mosca, in cui viene a crearsi un mostruoso quid di carne e metallo vivente, il che non è poco...

Se per cyberpunk si intendono le fascinazioni multimediali che scaturiscono dalle civiltà postindustriali, lo sperimentalismo, la frenesia, allora l’impatto di Tetsuo ne è la più compiuta raffigurazione.

Un ultimo accenno -per chiudere- lo merita il recente e nostrano Nirvana di Salvatores (1996), in cui il regista generazionale di Marrakech Express e Mediterraneo affronta tematiche cyberpunk, la realtà virtuale e il cyberspazio con la solita, nota, compagnia di attori (Abatantuono, Bisio, Conti, ecc.), impegnati in parti-cameo ed affiancati da Cristopher Lambert nel ruolo di un programmatore di videogiochi che, a causa di un virus nel suo sistema informatico, si ritrova ad affrontare il protagonista del suo videogame, Solo (Abatantuono) coscienzialmente indipendente e intollerante della propria condizione. Completano il cast Emmanuelle Seigner, Amanda Sandrelli, Stefania Rocca e Sergio Rubini. Il film porta alle estreme conseguenze il sincretismo culturale, etnico e religioso molto caro a Salvatores, ed ha diviso sia critica che pubblico in entusiasti o in delusi. Come a dire, accenni di commedia italiana in un contesto di spettacolarità prettamente d’oltreoceano...

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